Come è scomparsa la Spagnola?

Come è scomparsa la Spagnola?

Questa è una domanda che si sente molto riecheggiare; vale la pena di rispondere, anche se in modo sintetico, per mostrare come non serva richiamare improbabili leggi di natura, circa la coevoluzione spontaneamente favorevole fra noi ed i virus che sarebbe una tendenza inevitabile.
Voglio però avvertire il lettore: non esiste una risposta univoca, perchè vi sono molti fattori in gioco, ivi incluso il caos deterministico, nel causare il successo e la scomparsa di un ceppo pandemico. Quindi, le considerazioni che seguono identificano solo alcuni dei fattori che hanno contribuito; la discussione che segue ha il solo scopo di mostrare come sia possibile che un certo ceppo virale prima raggiunga un grande successo e poi scompaia e venga soppiantato da ceppi meno dannosi per l’umanità, in assenza di particolari “tendenze di natura” che governino l’adattamento verso direzioni a noi favorevoli; e anche di mostrare che questo tipo di fenomeni costituiscono un caso particolare, non una legge generale.

Introduzione: come è fatto un virus influenzale.

Cominciamo dall’inizio, e precisamente da una molecola importante per tutti i virus influenzali: l’emagglutinina.

Si tratta di una proteina che potremmo paragonare alla proteina spike del coronavirus, e come la spike è sulla superficie del virus, a costituire una sorta di “gancio” che permette al virus di attaccare le cellule da invadere.

L’emagglutinina (che si indica con la sigla H) si trova sulla superficie del virus dell’influenza con una seconda proteina, la neuraminidasi (che si indica con la sigla N); con questa seconda proteina collabora per consentire l’ingresso e l’uscita del virus dalle cellule bersaglio.

Nella figura seguente, si ricostruisce la struttura di un virus influenzale, con emagglutinina e neuraminidasi sulla sua superficie (ognuna in molte copie, naturalmente); all’interno, si nota un materiale spiraleggiante, che è l’RNA genomico del virus influenzale; vi sono poi sulla superficie del virus altre proteine, dei canali ionici di cui non ci occuperemo oltre (e vi è ancora qualche altra componente del virus che parimenti non discuteremo).

Ora, è importante sapere che esistono tanti diversi tipi di emagglutinina (come esistono tante varianti di Spike nel coronavirus) e tanti diversi tipi di neuraminidasi, tipi diversi che si sono prodotti per mutazione durante l’evoluzione virale; ad ognuno viene attribuito un numero progressivo, per cui avremo emagglutinine (sigla H) di tipo H1, H2, H3 … e parimenti neuraminidasi (sigla N) di tipo N1, N2, N3 eccetera. Il tipo di emagglutinina e di neuraminidasi è utilizzato per identificare il ceppo di influenza con cui si ha a che fare; nel caso della spagnola, si tratta di un virus influenzale del gruppo A, con emagglutinina di tipo 1 e neuraminidasi di tipo 1, sinteticamente indicato con la sigla H1N1.

Emagglutinina e Neuraminidasi sono fortemente immunogene.

Come sempre, quando un virus invade il nostro corpo, il sistema immunitario comincia a produrre anticorpi in grado di riconoscere i “punti più esposti” della superficie virale: nel caso del coronavirus, la proteina Spike è un bersaglio importante del sistema immune (ragione per cui i vaccini sono basati su quella proteina), mentre nel caso del virus dell’influenza ad essere riconosciute sono sia l’emagglutinina che la neuraminidasi.

Dopo un’infezione da virus influenzali, il sistema immunitario produce anticorpi contro praticamente l’intera struttura dell’emagglutinina virale; e la stessa cosa avviene anche per la neuraminidasi. Si può anzi dire che queste due proteine virali, da sole, costituiscono il grosso del bersaglio per il sistema immune.

Proprio per questo motivo, i ceppi di influenza che riescono a causare epidemie saranno poi soppiantati da altri ceppi con emagglutinina e neuraminidasi diverse: l’immunità indotta nella popolazione umana e animale (perchè anche il virus influenzale, come il coronavirus, colonizza più specie) in periodi più o meno lunghi seleziona nuove varianti caratterizzate da una diversa combinazione delle due proteine, rendendo così i nuovi ceppi in grado di evadere meglio la precedente risposta immune.

Nella figura seguente, tratta da un lavoro su Nature Medicine, sono ricapitolati a titolo di esempio i ceppi di influenza A diventati predominanti al passare del tempo durante il ventesimo secolo (il punto interrogativo nella figura dopo l’inizio del XXI secolo è dovuto alla data di pubblicazione dell’articolo).

Figure 2

Nello stesso articolo da cui è tratta la figura in questione, si cita un buon esempio di come questo meccanismo di immunoevasione, dovuto al campio di emagglutinina e neuraminidasi, funzioni:

Nel 1957 apparve un nuovo virus influenzale con due nuove proteine di superficie. La glicoproteina dell’emoagglutinina (sottotipo H2) del virus dell’influenza “asiatica” del 1957 mostrava un’identità di sequenza di amminoacidi solo del 66% con il sottotipo H1 dell’emoagglutinina. La neuraminidasi del sottotipo N2 del virus del 1957 condivideva un’identità di sequenza complessiva di solo il 37% con la neuraminidasi del sottotipo N1. Così, nel 1957, dopo 39 anni di virus H1N1, c’era poca o nessuna protezione immunitaria preesistente nella popolazione umana contro questo nuovo virus dell’influenza. Anche se cinque degli otto geni del virus dell’influenza erano stati conservati dai ceppi H1N1 circolanti nel 1956 e prima, l’immunità cellulare (o umorale) suscitata da questi prodotti genici non era sufficiente per proteggere efficacemente gli esseri umani contro il nuovo virus emerso nel 1957. Le stime suggeriscono che 70.000 persone sono morte nei soli Stati Uniti durante la pandemia di influenza asiatica causata da questo nuovo virus H2N2 e molte altre sono morte in tutto il mondo.

In sostanza: quando nel mondo si era diffusa un’immunità di durata e consistenza sufficiente a sfavorire il virus H1N1 responsabile dell’epidemia di spagnola (che aveva cominciato a declinare dal 1920 in poi), fu selezionato un nuovo ceppo, con emagglutinina e neuraminidasi diverse; il cambiamento in queste due proteine fu sufficiente (e lo è tutt’oggi) a rendere il nuovo virus “invisibile” alla precedente immunità. Così, la “asiatica” del 1957 cominciò a menar strage e a riempire gli ospedali; non raggiunse i livelli della spagnola del 1918, forse anche a causa dei cambiamenti nel frattempo occorsi nelle condizioni di vita e di cura, ma certamente rappresentò un’importante risalita di letalità e patogenicità influenzali.

Emagglutinina e Neuraminidasi contribuiscono agli effetti clinici.

Nei virus influenzali di tipo A, l’emagglutinina è un determinante importante della patogenesi indotta dall’infezione: alcuni tipi di emagglutinina sono capaci di indurre effetti clinici più gravi. Non è necessario scendere nei complessi dettagli che sono alla base di questo fatto; vale invece la pena di ricordare che anche lo specifico tipo di neuraminidasi presente su un dato ceppo influenzale è capace di influenzare la gravità dei sintomi indotti nell’ospite.

Naturalmente, questi non sono gli unici geni virali che hanno un ruolo nella gravità dei sintomi indotti; tuttavia, è importante osservare che essi siano contemporaneamente dei determinanti importanti sia della risposta immune che della patologia indotta.

Questa particolare circostanza ha una conseguenza importante, nel caso delle epidemia di influenza derivate dalla Spagnola: finchè pre-esiste l’immunità generata da una pandemia, vi è elevata probabilità che i ceppi seguenti siano meno letali, perchè l’immunità agisce proprio contro alcune delle proteine maggiormente responsabili degli effetti clinici gravi, selezionando quindi nella popolazione virus che portano varianti diverse di quelle stesse proteine, fra le quali molte non comportano effetti clinici della stessa gravità della combinazione H1N1.

Nel caso della Spagnola, ciò è particolarmente evidente se si considera cosa accadde nella seconda pandemia di H1N1, avvenuta a partire dal 1977: ad infettarsi, in quel caso, furono in larga prevalenza coloro che erano nati dopo il 1950, cioè coloro che erano privi di immunità per non essere mai stati esposti a quel tipo di virus; gli altri risultarono invece protetti, il che contribuì a diminuire di molto la portata della pandemia del 1977 rispetto a quella del 1918 (insieme ad altri fattori, collegati al progresso delle conoscenze in campo epidemiologico e clinico).

Tiriamo le somme.

Se la risposta immune è diretta proprio contro i determinanti di patogenicità e letalità, è naturale aspettarsi una selezione di ceppi virali meno problematici da un punto di vista clinico; questo è un meccanismo in grado di spiegare la recessione di ceppi influenzali aggressivi come la Spagnola, senza che vi sia bisogno di invocare alcuna tendenza speciale e quindi senza cadere nel teleologismo.

Bisogna però tenere a mente alcune cose:

a) Si tratta di un caso particolare.

b) L’immunità, in una popolazione, si perde man mano che scompaiono gli individui originariamente esposti ad un certo virus, e sono rimpiazzati dai nati dopo la scomparsa di quel virus. Questo significa che la sucettibilità al virus di una popolazione, naturalmente, oscilla nel tempo, e predispone la popolazione a nuove ondate pandemiche, ove si ripresenti una variante apparentemente scomparsa, in crisi epidemiche che possono avere lo stesso potenziale devastante della pandemia originaria.

c) La disponibilità di altre specie ospiti, in cui le varianti molto patogene (come H1N1) continuano a circolare, e la presenza di una popolazione suscettibile come da considerazioni esposte al punto precedente, possono portare alla riemersione della Spagnola (come di qualunque altro patogeno). Da un punto di vista di dinamica delle popolazioni, le tendenze di decrescita della patogenicità sono temporanee, finchè una data variante continua a circolare.

d) La sorveglianza epidemiologica, appoggiata al sequenziamento rapido, può impedire la diffusione di qualunque ceppo emergente o ri-emergente, attraverso le misure di contenimento e l’eventuale sviluppo di nuovi vaccini (in assenza di un vaccino pan-virale).

e) L’indeterminismo caotico, tipico delle società umane, rende molto difficile raggiungere il rigore necessario perchè le misure di cui al punto precedente possano essere applicate con sufficiente successo, a meno di un costante sforzo educativo su scala globale, i cui frutti si coglieranno solo nelle prossime generazioni.

I virus possono perdere di patogenicità ed in alcuni casi particolari, come quello illustrato per la Spagnola, questo può essere un processo deterministico dettato dall’evoluzione darwiniana; in termini generali e sul lungo periodo, tuttavia, questa tendenza non può essere generalizzata, senza cadere nella teleologia e senza quindi contraddire la stessa logica darwiniana.

Enrico Bucci

Data lover, Science passionate, Fraud buster (when lucky...)

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