Neve.

Neve.

Cade la prima neve, in quantità tale da permettermi una passeggiata in un panorama invernale. Quando vedo il primo bianco, la mente vaga immediatamente più libera, attraversando il tempo e riportando alla memoria immagini di montagna e di gelo, confondendo le tante montagne che ho vissuto e i tanti inverni che ho attraversato – in Abruzzo, innanzitutto, ma pure in Toscana, in Canada, e poi sulle Montagne Rocciose, nel centro della Germania, in Norvegia, e via via fino alle Alpi, ai cui piedi vivo ormai da tanto tempo.
Ovunque, ciclicamente ritorna la coltre ghiacciata, qualche volta prima, qualche volta dopo, di più o di meno secondo gli anni e le stagioni, con una tendenza alla diminuzione purtroppo sempre più accentuata.

Lentamente, nella vallata alpina dove mi trovo la coltre aumenta, spegnendo gradatamente il giallo brillante dei larici e il verde scuro degli abeti, nel silenzio ininterrotto dagli animali, che non disperdono energie e attendono la fine della nevicata.

Guardando questa prima, bella neve, per poi passeggiarci in mezzo, ritornano le domande del sempiterno bambino che è in me, le domande che non mi hanno mai abbandonato e al cui pungolo debbo la scelta del mio mestiere. Così, camminando e fantasticando, come spesso succede ho provato a rientrare nei panni di quel bambino, cercando risposte alle sue domande grazie a quello che intanto ho imparato.

Ma la neve è pioggia congelata?

La neve non è pioggia congelata. Quella è la grandine. Un cristallo di neve nasce quando una gocciolina di acqua della dimensione di millesimi di millimetro ghiaccia, all’interno di una densa nuvola ricca di vapore acqueo, formando un minuscolo nucleo solido, dalla forma tipicamente esagonale. Sulla superficie di questo nucleo, il vapore acqueo congela direttamente, iniziando a formare un cristallo di neve. Il cristallo aumenta via via di dimensioni perché alla sua periferia si deposita ulteriore vapore congelato. In un laboratorio, si può vedere nascere e crescere un cristallo di neve; un esempio è qui sotto.

La crescita di un cristallo di neve, ripresa al microscopio in laboratorio.

La simmetria esagonale si complica sempre di più, man mano che il cristallo si accresce; ma le leggi della fisica e della chimica interagiscono fra loro, facendo sì che la simmetria risultante sia comunque di tipo esamerico, nascondendo nelle forme ottenute infiniti triangoli.

E perché tutti questi esagoni e questi triangoli? Perché queste forme e non altre?

Qui entra in gioco la chimica. Un cristallo di neve è fatto di acqua congelata, ma proprio l’acqua, l’umile e comunissima acqua, è in realtà davvero straordinaria. Le sue molecole sono formate da due atomi di idrogeno e una di ossigeno, disposti ai vertici di un triangolo, come si vede qui sotto.

Molecola d’acqua. In Rosso l’ossigeno, in bianco l’idrogeno.

Ora, ogni atomo di idrogeno di una molecola d’acqua tende a formare uno speciale legame, chiamato appunto legame ad idrogeno, con l’atomo di ossigeno di un’altra molecola d’acqua, in modo che ciascun atomo di ossigeno può essere legato da due atomi di idrogeno di altre molecole d’acqua. Se la temperatura è bassa a sufficienza, questi legami diventano stabili e si forma il ghiaccio; la struttura angolata delle singole molecole d’acqua finisce per generare così un reticolo di esagoni, come si vede qui di seguito.

Struttura del ghiaccio d’acqua. Ossigeno in rosso, idrogeno in bianco, legami idrogeno tratteggiati.

Questa è l’origine della geometria esagonale del nucleo di ghiaccio che si forma alla nascita di un cristallo di neve, nucleo che ha quindi la forma di un minuscolo prisma esagonale, che può raggiungere una dimensione di pochi decimi di millimetro. A seconda dei dettagli del processo di crescita, questi semplici cristalli possono diventare minute colonne esagonali a forma di matita, sottili lastre esagonali o qualsiasi altra via di mezzo tra queste. I cristalli in genere sviluppano poi strutture più elaborate man mano che crescono.

I cristalli di neve colonnari possono diventare colonne cave, con vuoti conici alle estremità, oppure possono crescere in sottili aghi di ghiaccio lunghi pochi millimetri.

I cristalli a forma di lastra esagonale possono invece germogliare sei rami primari, formando cristalli di neve a forma di stella, come quello nel video. I rami sono spesso decorati con creste o altri motivi sulle loro superfici. I sei rami primari di un cristallo di neve stellare potrebbero anche far germogliare numerosi rami laterali aggiuntivi per formare strutture dendritiche simili a felci, che misurano fino a 10 millimetri di diametro. I rami laterali sono sempre separati l’uno dall’altro da multipli di 60 gradi e corrono paralleli alle file di rami adiacenti.

A volte un cristallo di neve inizia a crescere come una colonna e poi passa alla crescita a placche, così da generare due lastre alle estremità di una colonna di collegamento, come ruote su un asse. Queste forme rare e un po’ esotiche sono chiamate colonne incappucciate.

Qui di seguito ci sono un po’ di esempi delle infinite forme ottenibili, tratte da un sito dedicato.

Alcuni cristalli di neve.

Ma perché non esiste un cristallo di neve uguale ad un altro?

I due principali parametri che controllano la forma di accrescimento dei cristalli di neve all’interno di una nuvola sono la temperatura e la saturazione di vapor d’acqua, ovvero la concentrazione di acqua per metro cubo all’interno della nuvola.

Qui sotto è possibile osservare uno schema diventato un classico: il diagramma della morfologia dei cristalli di neve di Nakaya, che mostra diversi tipi di cristalli di neve formati nell’aria a pressione atmosferica, in funzione della temperatura e della sovrasaturazione del vapore acqueo rispetto al ghiaccio. La curva di saturazione dell’acqua (in nero) indica la sovrasaturazione dell’acqua superraffreddata, come si trova all’interno di una nuvola densa. Si noti che la morfologia passa da piastre esagonali ( T ≈ − 2 C) a colonne ( T ≈ − 5 C), poi ancora a piastre ( T ≈ − 15 C) e infine di nuovo prevalentemente colonne ( T < − 30 C) al diminuire della temperatura. La temperatura quindi determina principalmente se i cristalli di neve si svilupperanno in lastre o colonne, mentre la sovrasaturazione più elevata generalmente produce strutture più complesse e ramificate.

Ora, è facilmente immaginabile come le microcondizioni di temperatura e di saturazione possano variare di continuo e rapidamente durante la crescita di ciascun singolo cristallo di neve, generando quindi un processo di accrescimento che risente della storia casuale di oscillazione di questi parametri attorno a ciascun nucleo iniziale di formazione dei singoli cristalli di neve.

Poiché, come mostra il diagramma, la sensibilità del processo di accrescimento alla temperatura e all’umidità è così grande, anche variazioni modeste all’interno di una nuvola provocano grandi cambiamenti nel comportamento di crescita. Dopo numerose risalite e cadute causati dalla turbolenza atmosferica, la struttura finale di un singolo cristallo può essere dunque piuttosto complessa. È impossibile che due fiocchi di neve seguano esattamente lo stesso percorso attraverso le nuvole, quindi la probabilità di trovare due fiocchi di neve identici è praticamente nulla.

Sebbene ogni fiocco di neve segua un percorso diverso, le braccia di un singolo cristallo stellato viaggiano insieme. Le sei braccia subiscono tutte le stesse variazioni di condizioni esattamente nello stesso momento. Di conseguenza, i rami sembrano crescere in sincronia, semplicemente perché ciascuno sperimenta la stessa storia di crescita. Quindi il “genio creativo” di Thoreau, che si chiedeva chi fosse capace di disegnare cristalli di neve in un’infinita varietà di modelli belli e simmetrici, può essere semplicemente trovato nei venti e nelle microcondizioni climatiche in continua evoluzione.

Quando il peso è sufficiente, il cristallo precipita, abbandonando la nuvola in cui è nato e interrompendo così il processo di accrescimento. In questo caso, sulla terra cadono grandi cristalli, quelli che qualche volta si possono vedere. Più spesso, però, il processo si interrompe prima, perché cristalli diversi possono aggregarsi fra loro, a costituire un fiocco di neve. Rispetto a “cristallo di neve”, la parola “fiocco di neve” è un termine meteorologico più generale, usato per descrivere diversi tipi di precipitazioni invernali, dai singoli cristalli di neve agli agglomerati di molti cristalli.

Chi fa nevicare?

Da bambino, mia nonna, mescolando cristianesimo, storie inventate e leggende della Basilicata in cui fu bambina a sua volta, mi raccontava di un dio della neve, che provvedeva a ricoprire la terra sotto una coperta bianca, per farla riposare e per proteggerla dal freddo dell’inverno.

Non è un dio, ma un batterio, molto più frequentemente di quanto atteso, a creare un fiocco di neve.

Questo è quanto ci dice la ricerca moderna sulla nucleazione dei cristalli di ghiaccio che porta alla formazione della neve, in quota nelle nuvole.

L’ispirazione per questa ricerca è iniziata nel Montana.

Tutto è cominciato in maniera occasionale: un signore di nome Brent Christner, svariati decenni fa, aveva un amico che, disperato perchè, qualunque cosa facesse, non riusciva a liberarsi se non temporaneamente dei batteri fitopatogeni che infestavano i suoi raccolti, cominciò a pensare che i batteri letteralmente piovessero dal cielo sui suoi campi.

Organizzò quindi una prova che dovette sembrare una pazzia: preso un piccolo aereo, sporse fuori da questo in volo delle capsule Petri, in quota fra le nuvole. Su quelle capsule, presto crebbero gli stessi fitopatogeni che infestavano i suoi campi, il che, naturalmente, lo rinforzò nelle sue convinzioni.

Christner, intanto, diventò un microbiologo e glaciologo, ricercatore in una università americana; ma non scordò l’esperienza diretta del suo amico, e decise di dedicare il suo tempo ad usare tutti i mezzi che la sua conoscenza ed il suo laboratorio consentivano, per investigare il fenomeno. Raccolse neve e ghiaccio e li sciolse. Immediatamente, come atteso, trovò particelle nella neve che in laboratorio funzionavano da nucleatori di cristalli di ghiaccio. Sorprendentemente, tuttavia, risultò che i più attivi ed efficienti risultavano essere frammenti di batteri fitopatogeni.

Trovò questi particolari nucleatori batterici di ghiaccio dappertutto: Francia, Montana, Yukon, perfino in Antartide, ove non sono presenti piante. Questo ultimo dato implica che i batteri sono in grado di essere trasportati su distanze lunghe, ricadendo poi al suolo con la neve o la pioggia per la dannazione del suo amico e degli agricoltori come lui.

Ma la cosa più incredibile è che in quei batteri si è evoluta una serie di proteine diverse, le quali “imitano” per così dire la geometria di un minuscolo cristallo di ghiaccio, e fungono così da punti di nucleazione per i cristalli di neve: questo conferisce ai batteri stessi la capacità di causare la neve con probabilità elevata ed alta efficienza, quando le condizioni di temperatura e umidità sono quelle giuste.

Alphafold, il programma di intelligenza artificiale sviluppato da Google e messo a disposizione della comunità scientifica, è riuscito a determinare come funziona questo meccanismo per quel che riguarda certi batteri del genere Pseudomonas, che producono una delle proteine in grado di indurre la formazione di cristalli di neve. La proteina in questione ha la capacità di formare ghiaccio rapidamente in acqua super-raffreddata, ma prossima alla temperatura di fusione del ghiaccio – diciamo intorno a 2 gradi sottozero. A questa temperatura, la proteina è in grado di indurre la formazione di nuclei di ghiaccio, che innescano la cristallizzazione del resto dell’acqua liquida; polveri minerali non sono in grado di farlo con altrettanta efficienza, e soprattutto necessitano di temperature molto più basse – diciamo intorno a 20 gradi sottozero. 

Per i batteri che le hanno evolute, queste proteine sono fondamentali. Questi batteri, come abbiamo anticipato, sono patogeni delle piante: in presenza di sufficiente umidità e di basse temperature, i cristalli di ghiaccio che inducono possono amplificare i danni da gelata, ferendo il tessuto delle piante e così aumentando notevolmente la propria capacità di infezione.

Ma vi è molto di più. Molti di questi batteri possono essere sollevati a grandi altezze nell’atmosfera terrestre, dove insieme a muffe, polline e altri microorganismi costituiscono dal 20% al 75% (nelle foreste tropicali) del particolato atmosferico che si trova nelle nubi. La gran parte dei batteri trovati nelle nuvole vi sopravvive, e ve ne sono alcuni che sono stati trovati metabolicamente attivi: ma come “scendere” al suolo, per ritornare al proprio ambiente abituale? Ebbene, la proteina di cui si è determinata la struttura appartenente al batterio Pseudomonas syringe induce la formazione di ghiaccio a temperature che nelle nuvole, e soprattutto sopra le masse emerse alle medie latitudini, sono usuali; di fatto, questa proteina è capace di nucleare ghiaccio inducendo quindi precipitazioni piovose o nevose, secondo la temperatura, e così agevolare il batterio nella sua discesa a terra, dopo la sua cavalcata fra le nubi.

Grazie ad Alphafold, oggi sappiamo come: la proteina costituisce una grande superficie molecolare, la quale è proprio adatta ad ospitare un certo numero di molecole di acqua disposte in un reticolo cristallino – quello del ghiaccio. Questo poi si accresce spontaneamente a formare un fiocco di neve oppure funziona da punto di nucleazione per una gocciolina di pioggia, sufficientemente pesante da cadere al suolo riportando il batterio a contatto con le piante di cui si nutre. Se la temperatura è prossima allo zero, a questo punto nuovo ghiaccio sarà favorito dal batterio sulla superficie delle piante, creando ferite e completando il ciclo. Pertanto, si pensa che l’attività di nucleazione del ghiaccio sia un adattamento dei microbi per promuovere la loro deposizione dalle nuvole povere di nutrienti alla vegetazione o al suolo ricchi di sostanze nutritive, una teoria chiamata bioprecipitazione.

Conclusione di una passeggiata nella neve e fra i pensieri.

Se ci riflettiamo, è incredibile come nel DNA di certi organismi viventi – in questo caso i batteri – grazie al meccanismo Darwiniano sia stata depositata l’informazione necessaria a manipolare persino la meteorologia in senso vantaggioso per la loro propagazione, in un modo che, peraltro, influenza poi a sua volta la sopravvivenza di moltissime altre specie.

Resta solo da vedere se l’informazione codificata invece nei nostri cervelli circa l’effetto della specie umana sul clima sarà sufficiente a cambiare in senso favorevole alla nostra sopravvivenza, e a quella delle altre specie, il nostro comportamento.

Perchè non è detto che potremo ancora a lungo godere dello spettacolo che, fin da bambino, mi ha portato a fantasticare liberamente come oggi.

Enrico Bucci

Data lover, Science passionate, Fraud buster (when lucky...)

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