NO VIRUS, NO PARTY(cle)

Di:
Enrico M. Bucci – SHRO, Temple University – US
Raffaele A. Calogero – Università di Torino – IT
Mirella Vivoli Vega – University of Exeter – UK
“È ufficiale, arriva la conferma: il coronavirus è trasportato dal particolato atmosferico!”
La notizia è uscita fuori frettolosamente e divulgata in maniera distorta e non del tutto chiara, su molte testate giornalistiche, a solo due giorni di distanza dallo studio pubblicato dal gruppo SIMA (Società Italiana di Medicina Ambientale), in pre-print, ovvero senza aver subito ancora nessun processo di revisione da parte di altri esperti.
Gli autori affermano di aver già ipotizzato la possibilità che SARS-CoV-2 fosse presente nel particolato, ma che nessuno prima d’ora ha fatto esperimenti per confermare o escluderne la presenza del virus su queste particelle.
Il particolato (per un totale di 34 campioni di PM10, con diametro di 10 micron, provenienti da una zona industriale della provincia di Bergamo, e raccolti per un periodo di 3 settimane) è stato raccolto su filtri in fibra di quarzo, e adeguatamente “conservato” e spedito all’Università di Trieste. Qui è stato sottoposto a ulteriori analisi che hanno riguardato l’estrazione dell’RNA, seguita dal test di amplificazione, mediante la tecnica della PCR quantitativa, per valutare la presenza di frammenti (derivati dalla sequenza di 3 geni: E, RdRP e N) del materiale genetico (RNA) di SARS-CoV-2.
Bisogna preliminarmente considerare alcuni fattori:
- I campioni analizzati sono stati conservati per almeno quattro settimane prima di essere sottoposti ad analisi genetiche molecolari.
- Lavorare con l’RNA non è affatto una procedura facile, per cui il rischio di contaminazione e degradazione è molto elevato specialmente quando si manipolano quantità infinitesime di RNA come nel presente caso.
- Il test effettuato non può rivelare la presenza di virus attivo nel particolato[1].
Nonostante si sia partiti da 34 campioni, gli autori indicano che 15 su 16 filtri sono risultati positivi al gene E (che produce una proteina dell’involucro del virus, ma è un marcatore poco specifico); ma dove sono finiti i rimanenti 18 campioni? Si trovano sugli stessi filtri menzionati? Dei 16 filtri analizzati, 6 sono stati sottoposti ad una ulteriore analisi, per valutare la presenza del gene RdRP, un altro marcatore per SARS-CoV-2 (5 su 6 erano positivi). E gli altri 10 filtri?
Peraltro, a giudicare dalla figura 1A, il gene E è amplificato nei 16 campioni esaminati a Ct molto, molto alte; sebbene ci si attenda un segnale ad alte Ct, in queste condizioni, un controllo negativo ed una chiara strategia di thresholding sono indispensabili per evitare falsi positivi. Lo stesso dicasi per le 6 PCR del gene RdRP mostrate in figura 1B.
Pare poi di capire che i 34 campioni (gli autori parlano di 34 “RNA extractions”) sono stati spediti anche in una sede diversa, ospedaliera, per effettuare un secondo test “alla cieca” e in parallelo. 7 filtri hanno dato risposta positiva per almeno uno fra i geni RdRP, E e N, ma nessuno per tutti e tre. Sulla base di questi risultati, gli studiosi hanno affermato che questo lavoro rappresenterebbe la prima evidenza che SARS-CoV-2 RNA potrebbe essere presente sul particolato esterno, situazione questa che sarebbe in grado di favorire la persistenza del virus nell’atmosfera.
Quando si confrontano i numeri suddetti con la figura 2, si incontrano ulteriori difficoltà.
Gli autori, infatti, menzionano l’analisi in ospedale di 34 campioni; la tabella in questione contiene tuttavia solo 33 righe.
A questo punto, dovrebbe essere evidente che lo studio manca di risultati solidi che provino la presenza del virus e soprattutto di controlli negativi (i filtri con particolato ma senza alcun virus sottoposti alla medesima analisi, oppure particolato proveniente da zone non infette, o anche particolato sottoposto a denaturazione di RNA) e di replicati. Per quel che riguarda questo ultimo punto, gli autori stessi affermano, per mancanza di materiale, di non essere stati in grado di ripetere gli esperimenti e mostrare contemporaneamente la presenza dei 3 marcatori molecolari di SARS-CoV-2.
Le analisi di controlli negativi, e dei 3 geni marcatori per SARS-CoV-2 devono essere fatte contemporaneamente per evitare l’identificazione di falsi positivi. Inoltre, replicati dello stesso campione sperimentale sono fondamentali ed essenziali per confermare l’ipotesi!
Un punto particolarmente critico è la necessità di identificare in uno stesso campione almeno 2 geni dei tre testati, prima di poter affermare che si abbia qualche indicazione della presenza di RNA virale almeno in via ipotetica. Nel lavoro presentato, solo 2 campioni su 34 mostrano i geni E e RdRP ed uno solo i geni E ed N; ricordiamo peraltro che il gene E è quello meno specifico, e nemmeno in un caso i due marcatori un po’ più specifici sono presenti insieme.
In conclusione, solo quando i dati sperimentali saranno supportati dall’identificazione di almeno 2 dei 3 geni descritti, in presenza di controlli negativi di particolato e da replicati dei particolati potenzialmente contaminati nello stesso test sperimentale, solo allora, si aprirebbe la possibilità di testare la presenza del virus sul particolato atmosferico, allo scopo anche di ottenere un utile indicatore per rilevare precocemente l’eventuale ricomparsa del coronavirus.
[1] La procedura di identificazione dei geni del virus necessita unicamente della presenza di frammenti di RNA che contengano le regioni specifiche che vengono amplificate dalla PCR. Quindi, la potenziale presenza di RNA virale (tuttavia da verificare ancora) NON attesta necessariamente che il virus sia “vitale”, tantomeno che la carica virale sia in quantità tali da provocare automaticamente un’infezione, e nemmeno che il particolato rappresenti una TERZA VIA DI CONTAGIO.
Sicuramente i “giornalisti” che leggeranno il pezzo prenderanno la prima frase “È ufficiale, arriva la conferma: il coronavirus è trasportato dal particolato atmosferico!”, e ci faranno il pezzo ! Come il laboratorio segreto di Whuan….. Sob! Meno male che cercando perbene si trovano sprazzi di verità qua e là. La mia tesi fu sull’immaginario dell’11 settembre (2012 discussa), e contrastai prima per anni il compianto Giulietto Chiesa, validissimo professionista che credeva nelle balle diffuse all’inizio con un video da un ragazzino nel 2001 sull’attentato… Grazie per questo blog sempre illuminante che twitto sempre volentieri.
Ho letto l’articolo pur non essendo esperto in materia, ma ho fatto studi scientifici e mi sorge una domanda: sicuramente lo studio fatto che non ha portato ad una conclusione è costato tempo, fatica e denaro, allora mi chiedo chi paga? E soprattutto perché si utilizza questa superficialità sperando forse, per stupire gli altri ingannando se stessi (dubito che un ricercatore non lo sappia) di non essere scoperti dal mondo scientifico?
Solo una sfumatura ma… l’articolo in esame tratta della presenza di SARS-CoV-2 nelle particelle PM-10 e, tra le premesse, afferma che “A research carried out by the Harvard School of Public Health seems to confirm an association between increases in PM concentrations and mortality rates due to COVID-19”.
Pur da ignorante in materia, che ci sia una correlazione tra livelli di mortalita’ e di inquinamento atmosferico, quando un’epidemia sta ancora progredendo, non mi sorprende: l’inquinamento e’ tipicamente correlato a un’alta concentrazione di persone e a un’elevata mobilita’, elementi che favoriscono la rapida diffusione di un’epidemia.
Ma ben vengano gli studi a riguardo.
Pero’… vedendo l’articolo citato, ovvero
https://projects.iq.harvard.edu/files/covid-pm/files/pm_and_covid_mortality.pdf
osservo che gli autori hanno cercato di capire “whether long-term average exposure to fine particulate matter (PM 2.5) increases the risk of COVID-19 deaths in the United States”.
Quindi… ha senso citare uno studio sui PM-2.5 in un articolo che tratta i PM-10?
O, almeno, anziche’ affermare che lo studio americano “seems to confirm an association between increases in PM concentrations and mortality rates due to COVID-19”, non era il caso di precisare che tratta di una classe diversa di particolato?
da parimenti ignorante in materia, l´inquinamento, soprattutto quando fenomeno ultradecennale, puo´ essere correllato a maggiori percentuali di contagiati che sviluppano malattia grave, e di conseguenza anche una maggiore letalitá generale, perché le popolazioni soggette per decenni piú frequentemente in tarda etá si potrebbero ritrovare con quelle patologie croniche che appunto facilitano un decorso peggiore. Questo a mio avviso, ripeto da profano, potrebbe essere uno spunto per legare il fenomeno inquinamento e letalitá, qualcosa che effettivamente avrebbe inciso parecchio in una zona come la pianura padana, dove la morfologia del territorio oltretutto appesantisce il fenomeno riducendo lo smaltimento naturale progressivo delle sostanze, e dove il fenomeno visti i tempi (non recenti) di industrializzazione, puo´ aver portato le popolazioni ad avere queste problematiche croniche in misura maggiore anche di altre popolazioni in cui l´inquinamento é fenomeno subito da minor tempo e anche non soggetto a caratteristiche morfologiche del territorio. Queste chiaramente son tutte mie idee che posson esser nate da ragionamenti anche un po´ terra-terra, pero´ di oggettivo c´e´ ad esempio un nettamente maggiore numero di decessi registrato in quelle provincie della lombardia geograficamente facenti parte della pianura padana, rispetto alle provincie piú a nord, esempio varese,como,sondrio, non collocate geograficamente nella pianura padana stessa.
Certo… quello che scrive mi sembra ragionevole e sarei sorpreso se risultasse che ha torto.
Queste nostre sono pero’ solo ipotesi, tutto sommato ovvie (non se ne abbia a male), e ben vengano studi, se ben fatti, per verificarle.
Se la sua ipotesi e’ corretta, pero’, immagino sia ancora piu’ difficile verificare se quello che ipotizzano (ipotizzato solo) gli autori dello studio, ovvero che possa esistere una soglia di concentrazione di PM-10 oltre la quale questo particolato possa essere direttamente coinvolto nella diffusione del contagio (il potenziale “boost effect” di cui parlano al termine dell’articolo).
In zone praticate da pedoni ed automezzi non mi meraviglierebbe che si potessero riscontrare sia particelle virali che particolato PM10. La dimensione delle particelle virali (0,1μm ) o dei droplet (https://www.worldometers.info/coronavirus/transmission/
[²] https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMc2004973
In zone praticate da pedoni ed automezzi non mi meraviglierebbe che si potessero riscontrare sia particelle virali che particolato PM10. La dimensione delle particelle virali (0,1μm ) o dei droplet (minori di 10μm) in cui esse possono essere reperite¹ è già tale da consentire loro di rimanere in sospensione nell’aria² anche come aereosol (5μm).
Cosa nel preprint consentirebbe di desumere che il CoV si fosse necessariamente “aggrappato” al PM10?
Stando ad un sito di un produttore italiano di apparecchi di monitoraggio del particolato il paragrafo 5.1.4 dello standard EN-12341:2014 prevede che i filtri abbiano una efficienza di separazione del 99,5% per particelle del diametro di 0,3μm. Il reperire tracce di RNA di un virus di 0,1μm da campioni raccolti dai summenzionati filtri sarà stato considerato dirimente, _presumo_, sulla base dell’assunto che queste fossero troppo piccole per essere trattenute da sole, senza essere adsorbite sul particolato PM10.
Ingenuamente mi chiedo se sia certo che i filtri di tali apparecchi non possano raccogliere qualsivoglia droplet di 5-10μm anche in assenza di particolato PM10 altrimenti atteso giacché la possibilità di rilevare l’esposizione cumulativa al CoV in certi luoghi potrebbe avere usi applicativi ancora da individuare.
[¹] https://www.worldometers.info/coronavirus/transmission/
[²] https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMc2004973
NB: L’utilizzo del segno “minore di” nel commento precedente ne ha causato la trasformazione imprevista e la perdita di gran parte del testo.