Analisi della relazione finale del progetto “Sistemi di lotta ecocompatibile contro il CoDiRO – SILECC”

Quanto segue costituisce un’analisi dei dati disponibili all’interno della relazione finale del progetto SILECC, così come ottenuta dal consigliere regionale Fabiano Amati (regione Puglia).
IPOTESI SOTTO ESAME
Per quello che riguarda la descrizione delle attività e gli obiettivi, si legge testualmente nella relazione finale che:
[…]si è deciso di utilizzare un approccio agroecologico applicando tecniche di agricoltura organico-rigenerativa (AOR) per la gestione del suolo e della pianta (Garbeva et al., 2004). L’agricoltura organico-rigenerativa è un sistema di gestione della produzione tesa a promuovere e potenziare la biodiversità, i cicli biologici di insetti e microrganismi utili e le attività biologica e biochimica del suolo. Questo tipo di agricoltura si basa sull’utilizzo minimo di input chimici e su pratiche di gestione del suolo (minima lavorazione del terreno, concimazione organica e sovescio di leguminose) che ripristinano, mantengono e migliorano le interazioni fra pianta-suolo-microrganismi all’interno di un determinato agro-ecosistema (Restrepo Rivera, 2007).[…]
I diversi trattamenti da testare sono riassunti come seguire:
[…]La gestione del suolo adottata nel Progetto, quindi, ha previsto il sovescio e/o la concimazione con un biofertilizzante liquido, basato sul protocollo di Restrepo Rivera (2007), ottenuto dalla fermentazione anaerobica (per circa un paio di mesi) di letame bovino fresco con l’aggiunta di cenere, siero di latte, saccarosio, lieviti e acqua. Per il sovescio sono state utilizzate una leguminosa (il favino) e una brassicacea (cavolo broccolo varietà locale “Mugnulu”). È stata scelta questa varietà salentina di cavolo broccolo per sfruttare, mediante il sovescio, il suo potenziale biofumigante dovuto ad un elevato contenuto di glucosinolati (Argentieri et al., 2011).[…]
Circa l’ipotesi da sottoporre a test, poco più avanti nel rapporto si afferma che:
[…]“L’obiettivo del progetto è stato quello di definire un sistema di lotta ecocompatibile contro il Co.Di.RO da poter applicare soprattutto all’interno degli oliveti secolari che caratterizzano l’intero territorio salentino. Si è cercato di raggiungere questo obiettivo attraverso il miglioramento, oltre che dello stato fitosanitario della pianta, anche delle caratteristiche fisico-chimiche e microbiologiche del terreno, promuovendo l’aumento della sostanza organica e lo spostamento dell’equilibrio della biocenosi microbica tellurica verso i microrganismi utili e antagonisti.”[…]
In sostanza, in questo progetto ci si proponeva di valutare se diverse combinazioni di particolari regimi di sovescio e concimazione, insieme o meno ad alcuni trattamenti fitosanitari tradizionali (solfato di rame e di ferro) e alla potatura, fossero efficaci nel ripristinare migliori caratteristiche dell’agroecosistema ed insieme nel contrastare il disseccamento rapido. In totale, sono stati trattati 7 gruppi di ulivi da 12 piante ciascuno, per un totale di 84 piante comprese 12 piante di controllo.
PROBLEMI APERTI NEL DISEGNO SPERIMENTALE
Non si intende qui discutere del modo in cui sia stata formulata l’ipotesi di partenza; tuttavia, ci si può innanzitutto fare qualche domanda sul disegno sperimentale e sui metodi utilizzati, per capire se essi fossero adeguati ad indagare tale ipotesi.
Per cominciare, si rileva che l’assegnazione degli ulivi ai vari blocchi è avvenuta senza la genotipizzazione delle piante coinvolte prima che iniziassero le attività (si noti anche che alcune piante risultano innestate, altre no); questo comporta, per esempio, che la distribuzione di varietà di olivi più o meno resistenti tra i diversi blocchi potrebbe essere disomogenea, rendendo difficoltosa l’interpretazione di ogni dato raccolto. In esperimenti di tal fatta, come ogni esperto del settore ben sa, questo è un errore da evitare accuratamente.
Ancora, nell’elenco dei blocchi sperimentali cui sono assegnate le 84 piante di ulivo (a pagina 3 della relazione), non è presente nessun blocco completamente privo di ogni trattamento, aratura inclusa; come vedremo approfonditamente in seguito, questo è fonte di numerose stranezze nell’analisi e presentazione dei risultati.
Inoltre, stranamente non si misura il contenuto in rame nei terreni – né prima, né durante i trattamenti che prevedono l’impiego di solfato di rame – il che, considerato l’effetto rinverdente del rame, può introdurre ulteriori fattori confondenti nel caso si osservassero risultati di qualche tipo.
Infine, nel progetto non è prevista nessuna misurazione degli isotiocianati, i composti attivi del processo di biofumigazione proposto; in proposito, val la pena notare che soprattutto in condizioni aride, quali quelle presenti nei campi in studio, gli isotiocianati effettivamente rilasciati dopo il sovescio con brassicacee possono costituire meno dell’1% del totale disponibile.[1]
ANALISI DEI RISULTATI RIPORTATI
Al di là della strutturazione delprogetto SILECC, quel che conta qui è esaminare i risultati e valutarne l’aderenza alla comunicazione pubblica in corso. E qui sorgono i maggiori problemi. A pagina 3 del rapporto sono elencati tutti i blocchi sperimentali come segue:
A) Terreno arato non trattato, pianta non trattata;
B) Terreno arato non trattato, pianta trattata con solfato di rame e solfato di ferro;
C) Terreno arato trattato con biofertilizzante, pianta trattata con solfato di rame e solfato di ferro;
D) Terreno arato e sovesciato con favino, pianta trattata con solfato di rame e solfato di ferro;
E) Terreno arato e sovesciato con mugnuli, pianta trattata con biofertilizzante, solfato di rame e solfato di ferro;
F) Terreno arato e trattato con biofertilizzante in combinazione con sovescio con mugnuli, pianta trattata con solfato di rame e solfato di ferro;
G) Terreno non arato non trattato, pianta trattata conbiofertilizzante, solfato di rame e solfato di ferro.
Le piante corrispondenti a ciascun gruppo sono indicate chiaramente in figura 2 del rapporto; si tratta come detto di 12 piante per ciascun gruppo, per un totale di 7 gruppi e 84 piante.
Tuttavia, quando si discute nel rapporto dei risultati dei vari trattamenti, e precisamente a pagina 8, si trova la figura 4, riprodotta di seguito, accompagnata dal seguente testo:
“La figura 4 mostra la gravità del disseccamento, rilevata a settembre 2018, in ciascuna tesi/trattamento e sulle piante non potate non trattate che circondano il campo sperimentale. Le piante presenti nelle parcelle con i trattamenti B,C,D,E e G mostrano una riduzione statisticamente significativa del disseccamento rispetto alle piante non potate e non trattate (H). Il trattamento E (terreno arato e sovesciato con mugnuli, piante trattate con biofertilizzante, solfato di rame e solfato di ferro) è quello che ha ridotto maggiormente il disseccamento. Le piante presenti nelle tesi A e F hanno mostrato una riduzione dei sintomi della malattia che però non è significativa rispetto a quella rilevata su piante non potate e non trattate (H).”

Non essendo riportata nessuna stima di variabilità rispetto alla media (errore, deviazione standard, varianza … ), non è possibile controllare la significatività dei dati riportati in figura (il che sarebbe già un grave difetto dell’analisi presentata); tuttavia, ancora più stupefacente è l’introduzione di un ottavo gruppo (il gruppo H) come controllo, rispetto al quale è calcolata la significatività della differenza fra le medie, senza che si capisca da dove esso derivi, visto che esso non è presente né nell’elenco dei blocchi sperimentali riportato a pagina 3 né nella corrispondente figura 2, riportata di seguito per maggiore comodità del lettore.

Di questo “gruppo fantasma” si sa solo che esso comprende piante “non potate non trattate che circondano il campo sperimentale”. Oltre all’evidente problema consistente nell’introdurre un gruppo arbitrario e imprecisato di piante di controllo, ci si chiede come sia possibile paragonare le piante dei vari blocchi sperimentali, tutte potate, con piante non potate nel “gruppo fantasma”; ogni eventuale effetto osservabile, infatti, può a questo punto ovviamente essere addebitato alla semplice potatura, visto che tutti i trattamenti sono tra loro statisticamente indistinguibili (si veda ancora la figura 4) e risultano produrre effetti diversi solo dal “gruppo fantasma” di piante non potate.
Dunque, la pretesa significatività della differenza nella gravità di disseccamento fra i non trattati e tutti i trattati (incluso il gruppo E, il cui trattamento viene ingiustificatamente riportato essere il migliore, pur senza essere statisticamente distinguibile da nessuno degli altri blocchi sperimentali) è in realtà attribuibile alla semplice potatura, come risulta dagli stessi dati presentati dagli autori.
A questo proposito, è interessante come la regressione spontanea dei sintomi osservata per il gruppo A da sintomatologia 4 (quella osservata all’inizio della sperimentazione) a 3 dopo potatura e aratura superficiale è maggiore della differenza tra lo stesso gruppo A e ognuno dei gruppi sottoposti a trattamento; il che equivale a dire che la variazione spontanea dell’indice di danno fogliare a seguito della sola potatura/aratura è maggiore degli effetti riportati per i trattamenti, se pure questi fossero statisticamente diversi (e non lo sono).[2]
Quando quindi a pagina 13, nelle conclusioni del rapporto, si afferma che “Queste gemme, nei 18 mesi di sperimentazione, hanno iniziato a ricostituire una chioma che nel trattamento E (terreno arato e sovesciato con mugnuli, piante trattate con biofertilizzante, solfato di rame e solfato di ferro) mostrava una riduzione significativa del disseccamento rispetto alle piante non potate non trattate”, si fa un’affermazione che non è supportata dai dati presentati.
Peraltro, si noti che in tutte le altre analisi presentate, il misterioso gruppo H di controllo scompare, e con esso scompare ogni effetto di rilievo che sia statisticamente significativo, come si evince dalla riproduzione delle figure e delle tabelle presenti nella relazione e riportate di seguito.







In nessuna delle figure riportate è presente il “gruppo fantasma” usato come controllo nella figura 4 (gruppo H); e, guarda caso, ogni effetto di rilievo per questi esperimenti sparisce, tanto che nelle conclusioni e altrove nel documento si afferma che:
“Le analisi chimiche del terreno non hanno evidenziato differenze significative dei parametri analizzati tra i trattamenti (Tabella 3).” (pagina 13); dunque nessun trattamento ha alcun effetto sulla composizione chimica dei terreni nel periodo di osservazione, ed una delle principali ipotesi di lavoro – quella che i trattamenti servissero a ripristinare l’agroecosistema – è smentita dai dati;
“Sono stati effettuati rilievi sullo stato vegetativo dell’albero per tutte le piante sottoposte ai diversi trattamenti. I risultati di queste osservazioni mostrano una miglior risposta per il trattamento E, che ha anche mostrato la più bassa percentuale di RWC e il maggior contenuto in Bacillus spp. nel suolo (differenze non significative)”(pagina 13); ma se le differenze non sono significative, nessun trattamento ha alcun effetto statisticamente rilevante sulla composizione del microbioma considerato.
In aggiunta, nella relazione si legge che:
“Tutti i campioni di piante sottoposte ai diversi trattamenti realizzati nel progetto sono risultati positivi al batterio Xylella fastidiosa” (pagina 13); dunque non vi è nessun effetto di alcun trattamento per quel che riguarda l’infezione da Xylella.
In definitiva, gli stessi autori del rapporto concludono che nessun effetto di rilievo è osservabile in seguito ai trattamenti testati, a meno di un presunto effetto sulla gravità dei sintomi, fondato sul confronto con un “gruppo fantasma” di consistenza ignota e le cui piante componenti non sono identificate, il quale non è presente in nessun altro esperimento a parte quello riportato in figura 4, in difformità dal disegno sperimentale proposto inizialmente a pagina 3 della relazione.
CONCLUSIONI
A seguito dell’analisi condotta sui dati disponibili nella relazione finale consegnata, si può agevolmente concludere che nessun modello di gestione testato nel progetto SILECC ha dato risultati degni di nota o positivi; al contrario, tutti i trattamenti sono risultati statisticamente equivalenti fra loro e ad una semplice potatura/aratura, senza nessun trattamento (gruppo A, figura 2); nessuna alterazione dei suoli di qualche interesse è stata osservata a seguito di nessun trattamento; si è ovviamente osservata una certa ripresa vegetativa dopo potatura (su tutte le piante, incluse quelle non concimate o trattate), che certamente non può essere considerata un risultato scientificamente degno di nota, tanto più che l’effetto è misurato rispetto ad un campione non caratterizzato (gruppo H).
[1] Kirkegaard, J., &Matthiessen, J. (2004). Developing and refining the biofumigation concept. Agroindustria, 3(3), 233–240.
[2] Che l’aratura sia in sostanza un fattore probabilmente irrilevante lo si deduce anche dall’analisi del gruppo G, non sottoposto ad aratura, eppure statisticamente indistinguibile dagli altri in cui essa è stata effettuata; peraltro gli stessi autori nelle conclusioni alle pagine 13 e 14 sconsigliano l’aratura, quando scrivono che “Questi problemi, come indicato da diversi studi (Zaitlin et al. 2004, Ding et al. 2013, Sofo et al.2014, Xiloyannis et al. 2015), potrebbero derivare dalle frequenti lavorazioni del terreno per effettuare il diserbo meccanico, che l’azienda Lo Prieno effettua da almeno 20 anni e che vanno da due a tre arature all’anno. Altro importante problema derivante dall’aratura è il rischio concreto di danneggiare le radici principali delle piante di olivo che, nell’azienda ospitante il campo sperimentale, si presentavano affioranti e in qualche caso già gravemente compromesse.”
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