LA GRANDE BELLEZZA.

Io credo che uno dei più grandi fraintendimenti nel modo in cui le persone guardano alla scienza sia l’idea che, alla fine, essa sia niente di più che uno strumento più o meno utile, e che sulla base della sua capacità di servirci a qualche scopo essa debba essere infine giudicata.
Letterati, umanisti, artisti spesso mi hanno manifestato un grande rispetto per le incredibili capacità predittive, per l’utilità e per le applicazioni fantastiche cui il progresso scientifico ha portato; ma per quanto ammirevole, l’impressione che essi hanno della scienza non è quella della bellezza, dell’intima soddisfazione, del senso di stupore e di grandiosità che la visione scientifica del mondo può conferire.
Vorrei provare umilmente a descrivere a tutti voi cosa provo io quando mi fermo a riflettere e ad applicare quel poco di conoscenza scientifica che possiedo nel mio settore, la biologia, nel corso di una normale passeggiata dietro casa mia – una delle poche cose che sono ancora permesse in zona rossa.
Dunque ecco cosa vedo in questi giorni non lontano da casa mia, nei boschi alle spalle delle colline ai piedi delle quali abito. Come ogni primavera, un bellissimo tappeto di fiori bianchi ricopre il suolo sotto gli alberi ancora spogli; e l’immagine, di cui vedete un esempio nella foto di apertura, è così vibrante e fresca di energia primaverile che, anche se non sono un poeta, un artista o un letterato, il senso del bello non può fare a meno di colpirmi a prima vista, costringendomi a fermarmi e a rimirare lo spettacolo.
Se fossi un poeta, un musicista o un letterato, forse sarei ispirato da questa visione, e la mia arte particolare ne trarrebbe giovamento; ma sono un biologo, e quindi ricordo da miei studi di botanica che quel fiore è di una ranunculacea, Anemone nemorosa, molto diffusa alle nostre latitudini.
Questo fiore, come tutti sanno, serve alla pianta ad attirare gli insetti impollinatori, i quali però, diversamente da noi, sono spesso sensibili a colori per noi invisibili: quelli nella regione dell’ultravioletto vicino. Un fiore bianco come quello di questa anemone, agli occhi degli insetti appare clamorosamente diverso, perchè riflette fortemente la luce ultravioletta; e se immaginassimo di poter percepire quella regione dello spettro luminoso come blue, nella parte di sinistra della figura che segue è rappresentato quel che vedremmo – una approssimazione fantasiosa di ciò che vede un’ape.

Guardando bene la parte sinistra della figura, possiamo notare che i margini dei petali dell’anemone appaiono pulverulenti, in questa ricostruzione di ciò che vede l’ape; il motivo è che in quella parte dei petali, l’epidermide del fiore è costituita da cellule a forma di peretta rovesciata (cellule coniche), che diffrangono e riflettono la luce incidente in maniera diversa dal resto del petalo, e determinano quindi l’aspetto pulverulento. Queste cellule, proprio per la loro forma, offrono una presa più salda alle zampe dell’insetto; il loro diverso colore segnala quindi all’impollinatore dei punti su cui far presa migliore all’atterraggio, prima di dirigersi verso il centro della corolla a rifornirsi di nettare e a caricarsi nel processo di polline.
E come mai, mi chiedo, la corolla dell’anemone, per meglio dirigere l’insetto verso di sé, prima attirandolo con la sua spiccata colorazione a noi invisibile, e poi segnalandogli i punti di maggior presa, usa proprio il colore conferito dagli ultravioletti, un colore che noi non riusciamo nemmeno a percepire? Come mai cioè gli insetti vedono quel colore, e noi no? E’ qui che arrivano in mio soccorso la biologia molecolare e la biochimica, gli argomenti del mio dottorato di ricerca.
Con gli insetti noi condividiamo il meccanismo fondamentale della visione, che si basa sulla sensibilità alla luce di specifici colori di alcune piccole molecole dette pigmenti, contenuti all’interno di proteine specializzate dette opsine. Fra queste, vi è una rodopsina, contenente un pigmento chiamato retinale, che nel nostro rileva la luce blue-viola.
Eppure, una singola mutazione in una sola posizione di questa rodopsina è capace di trasformare di nuovo la nostra visione in una visione sensibile all’UV: la posizione 90, che è occupata da una glicina negli umani e in altri mammiferi come le mucche, se viene cambiata in lisina, che è quanto si osserva negli insetti (api comprese), porta ad essere di nuovo sensibili agli UV.
Qui sotto vedete a sinistra la rodopsina in questione (colorata, in una piccola sezione della membrana cellulare di una cellula della retina rappresentata in grigio), e a destra, fortemente ingrandita rispetto alla parte di sinistra, la disposizione spaziale del pigmento di retinale contenuto all’interno della rodopsina e del residuo di glicina in posizione 90, quello cruciale per la mutazione di cui stiamo discutendo.

Il modo in cui i fotoni della luce che colpisce l’occhio di un animale interagiscono con il pigmento fotosensibile (il retinale nella rodopsina) dipende dalla carica elettrica circostante; la lisina carica positivamente negli occhi degli insetti cambia l’energia degli orbitali molecolari del pigmento, in modo tale che diventino esattamente capaci di assorbire un quanto trasportato da un fotone a maggiore energia, nello spettro ultravioletto, rispetto a quanto avviene nei vertebrati, ove il quanto assorbibile è quello di un fotone a minore energia, nella regione del viola.
La differente visione all’ultravioletto tra noi e le api dipende quindi da una mutazione in una singola proteina dell’occhio – una rodopsina – che la rende capace di vedere alternativamente nella regione del verde-blue o dell’ultravioletto. Nei vertebrati – tutti – questa mutazione era originariamente presente, come si osserva nei topi ed in molti pesci, e conferiva la capacità di distinguere l’ultravioletto; ma attraverso diversi meccanismi di duplicazione genica, retromutazione ed altri ancora, è più volte scomparsa indipendentemente. A volte, dopo essere scomparsa, la capacità di percepire gli UV è ricomparsa, magari a causa di diverse mutazioni: è il caso per esempio degli uccelli, il cui antenato era cieco agli UV.
La comparsa o scomparsa della capacità di distinguere l’UV dipendono sostanzialmente dall’ambiente e dallo stile di vita: per gli uccelli, la visione nell’ultravioletto è particolarmente vantaggiosa, perché consente capacità di orientamento migliore in dipendenza dell’altezza del sole (dato che la quantità di ultravioletto che raggiunge la terra dipende da questo), ma questa capacità per tutti gli animali ha un costo, perché le radiazioni ultraviolette ad alta energia danneggiano facilmente la retina capace di percepirla. Nei mammiferi come l’uomo, la capacità si è persa, proteggendo al contempo la retina con appositi pigmenti capaci di assorbire i dannosi ultravioletti, perché la percezione di quella radiazione è meno utile allo stile di vita del gruppo di animali cui apparteniamo.
In sostanza, singole, piccolissime mutazioni permettono di cambiare completamente le capacità di un animale, in questo caso di visione, e ovviamente si portano dietro una gran differenza nella capacità di prosperare in ambienti differenti e con stili di vita diversi: è questo il caso in cui un cambiamento graduale con una piccolissima mutazione, di quelli proposti da Darwin, porta però ad un salto notevole nelle caratteristiche di una specie, creando i presupposti per una forte differenziazione di nicchia ecologica.
Queste, ed altre, sono le storie che alle orecchie di chi è pronto ad ascoltare può raccontare la bella fioritura primaverile di questi giorni; ed è per ascoltare storie ancora nuove, ancora più affascinanti ed approfondite che ogni essere umano può apprendere quanto basta a lanciarsi nell’esplorazione del nostro mondo provvisto di tutti i sensi in più che non qualche cialtronata new age, non la religione, non le limitate pseudoscienze più alla moda, ma solo la ricerca scientifica è in grado di fornirci senza sosta.
Senza, naturalmente, privarci delle capacità di godere anche dello spettacolo offerto dai campi in questi giorni e delle opere che a Botticelli, a Vivaldi o a Tagore ha ispirato la primavera.
La conoscenza rivela la bellezza, altrimenti rimane pura utilità (e.g. i nativi digitali che nulla sanno di codice, sono meri utilizzatori). Su un piano simile, andando oltre la visione, trovo esaltante ragionare sulla “visione” dei pipistrelli. Spesso mi sono fermato a sognare un quadro o uno strumento che permetta di “vedere”, a scelta, diverse lunghezze d’onda a noi non percepibili. Sarebbe bello!