La finestra di infettività di SARS-CoV-2

La finestra di infettività di SARS-CoV-2

Supponiamo che siate risultati positivi ad un tampone per la ricerca di RNA di SARS-CoV-2.

Per quanto tempo rimarrete infettivi, cioè capaci di contagiare altre persone?

Il più lungo periodo di tempo osservato, in cui a partire dall’infezione con un virus, si è in grado di trasmettere il virus ad altre persone è a volte chiamato “finestra infettiva”.

Qual è dunque la finestra infettiva per SARS-CoV-2?

Per determinarla, esistono metodi diversi.

Un primo metodo diretto consiste nel ricostruire con certezza gli eventi di trasmissione da un infettante ad un soggetto successivamente infettato. Se conosciamo con certezza il momento di inizio dell’infettività del primo soggetto ed anche il momento in cui questo secondo ha manifestato sintomi, otteniamo un intervallo di tempo detto “tempo seriale”. Possiamo ripetere la misura su moltissime coppie infettante-infettato, ed ottenere un valore massimo per il tempo seriale; questo valore, per i virus in cui l’infettività comincia al manifestarsi dei sintomi, sarà certamente uguale o più lungo alla durata della finestra di infettività, perché la trasmissione del virus dal primo soggetto al secondo deve essere avvenuta tra la rispettiva manifestazione dei sintomi.

Tuttavia, se, come nel caso di SARS-CoV-2, la trasmissione può avvenire anche prima della manifestazione dei sintomi, allora non otterremo dalla misura del tempo seriale una stima della massima lunghezza della finestra di infettività, ma solo della sua “coda” dopo che i sintomi siano già manifestati, cioè la “finestra di infettività post-sintomo”. In parole povere, dal tempo seriale sapremo il tempo massimo per il quale si resta infettivi, dopo la manifestazione del primo sintomo.

Fatte queste premesse, andiamo a considerare i dati disponibili per il tempo seriale di SARS-CoV-2.

Uno dei primi lavori, fra i più citati perché apparsi inizialmente sotto forma di preprint, è quello di He et al., pubblicato su Nature. Basandosi su 77 coppie infettante-infettato, e facendo diverse assunzioni su quanto prima dei sintomi inizi l’infettività, questi autori trovano che il massimo dell’infettività si ha fra 2 giorni prima e un giorno dopo la manifestazione dei primi sintomi. Riferendosi ai risultati di un altro gruppo, quello di Wolfel et al. di cui discuteremo in seguito, questi autori indicano come 8 giorni dopo il primo sintomo l’infettività diminuisce di molto.

In sintesi, questo primo lavoro piazzava il grosso dell’infettività fra 2 giorni prima dell’emergenza dei sintomi e 8 giorni dopo; ma questo dato, sebbene sia utile, non ci aiuta a capire per esempio in che percentuale i malati siano ancora infettivi in tempi ancora successivi, e, soprattutto, c’è da dire che il lavoro stesso è stato recentemente demolito da un punto di vista metodologico, nonostante una pesante correzione apportata dagli stessi autori.

Ho parlato di questo lavoro per mostrare come, nel caso di COVID-19, sia pericoloso affidarsi ai tempi seriali per ottenere la finestra di infettività, perché le assunzioni necessarie sono troppe e i modelli utilizzati sono ad esse molto sensibili; conviene, dunque, andare a cercare altri dati, che siano più robusti anche se magari meno diretti.

Questi dati derivano da un diverso tipo di misure, e precisamente dalla coltivazione di virus a partire dai campioni ottenuti a vari tempi dai pazienti. Il ragionamento è semplice: se un virus è coltivabile a partire da un tampone, allora esiste la possibilità che il paziente in questione possa trasmettere la malattia, mentre se non ottengo più virus coltivabile da un paziente, il fatto che questo paziente sia ancora positivo (cioè che ancora sia rinvenibile RNA virale) non è rilevante ai fini della trasmissibilità del virus.

Il primo lavoro che vorrei considerare è proprio quello citato dal lavoro di He et al., cioè il lavoro di Wolfel et al. pubblicato anch’esso su Nature.

I dati che più ci interessano sono riportati nelle figure 1f e 1g di questo lavoro, riprodotte di seguito.

Nella figura 1f, si vede come gli autori non siano riusciti a coltivare virus oltre 8 giorni dopo l’inizio dei sintomi (pallini rossi). Tuttavia, in scienza è necessario considerare che ciò che si osserva in un campione rappresenta con una certa incertezza ciò che avviene nell’intera popolazione dei pazienti; spesso si usa per quantificare questa incertezza l’intervallo di confidenza al 95%. L’intervallo di confidenza al 95% nella figura 1f è riportato dalle linee tratteggiate. Si vede, per esempio, che 14 giorni dopo l’inizio dei sintomi, la probabilità di ottenere virus coltivabile da un paziente (al di là di quello che si osserva nel campione in studio) coperta dall’intervallo di confidenza varia tra 0 e 20% circa.

La figura 1g in questo stesso lavoro ci fornisce un altro dato importante: si vede come, all’aumentare della carica virale (copie di RNA) presente nei tamponi, aumenti la probabilità di ottenere virus coltivabile, e di conseguenza aumenti l’infettività dei pazienti. Questo fatto ci fornisce un altro modo per valutare l’estensione dell’infettività di un paziente: correlando la carica virale con la possibilità di coltivare il virus, potremmo infatti ottenere un valore di carica virale, al di sotto del quale la probabilità di ottenere virus coltivabile sia molto piccola, e quindi il paziente sia molto probabilmente non infettivo. In figura 1g, si nota che quando la carica virale è a livelli bassi – 10000 copie per ml – la probabilità di ottenere virus coltivabile può variare, se assumiamo l’intervallo di confidenza al 95%, fra 0 e circa il 30%.

Ricapitoliamo quindi i risultati di questo studio: con il 95% di confidenza, fra 0 e 20% dei pazienti risulta infettivo a 14 giorni dal primo sintomo, e fra 0 e 30% dei pazienti con carica virale pari a 10000 copie per ml risulta infettivo.

Possiamo ottenere delle stime più accurate? Possiamo, cioè, sapere per esempio se a 14 giorni dal primo sintomo la probabilità di ottenere virus coltivabile sia più vicina a 0 o a 20%?

Per farlo, dobbiamo considerare uno studio su un campione più ampio di pazienti e di tamponi. Uno studio come quello realizzato su pazienti inglesi da Singanayagam et al., in cui non solo si è considerato un numero ampio di campioni, ma soprattutto si sono ottenuti molti campioni successivi alla prima settimana dopo lo sviluppo dei sintomi.

Per i campioni con età maggiore di una settimana dopo il primo sintomo, i risultati sono riportati in tabella 1.

Possiamo confrontare questo risultato con quello di Wolfel: innanzitutto si osserva l’effetto del campione più ampio, che permette di ottenere virus coltivabile anche dopo 8 giorni, visto che gli autori trovano campioni che restituiscono virus coltivabile fino al giorno 12 (cosa che non era risucita a Wolfel et al.). Inoltre, si nota che, al giorno 14, la probabilità di ottenere virus coltivabile varia tra 0 e 9.4%, restringendo così di molto la precedente stima (che ricordiamo era tra 0 e 20% per Wolfel).

A 10 giorni, il valore più probabile di ottenere virus coltivabile è compreso in un intervallo fra 0.9% e 31.2%; questo significa che, con il 95% di confidenza, a 10 giorni dall’inizio dei sintomi si otterrà sempre una percentuale di pazienti che fornirà virus coltivabile.

Anche a 15 giorni dopo i sintomi, vi è ancora una probabilità non trascurabile di ottenere virus coltivabili (fino al 6.7%).

Un altro risultato importante di questo lavoro consiste nell’aver trovato che non vi è differenza nella probabilità di ottenere virus coltivabile da soggetti sintomatici o asintomatici: la trasmissibilità del virus non appare quindi legata alla severità della malattia. Allo stesso modo, e a conferma della correlazione fra carica virale e trasmissibilità, non vi è differenza fra la carica virale rilevata nei soggetti sintomatici e asintomatici.
Infine, questo lavoro fornisce dei risultati più accurati del precedente per quel che riguarda la correlazione fra carica virale e infettività, presentati graficamente nella figura 2, qui riprodotta.

Si può notare come, anche in caso di tamponi con carica virale molto bassa (Ct > 35), 5 campioni su 60 hanno fornito virus coltivabile; e, guardando all’intervallo al 95% di confidenza, si nota come fino a circa il 20% dei campioni con Ct = 35 potrebbero ancora fornire virus coltivabile.

Bene: cosa possiamo quindi concludere dall’analisi di tutti questi valori?

  1. La finestra di infettività si estende certamente oltre 12 giorni dopo il primo sintomo, con l’infettività che raggiunge un massimo subito prima e subito dopo la comparsa dei sintomi;
  2. Se assumiamo che l’ottenimento di virus coltivabile sia sinonimo di trasmissibilità, la frequenza di trasmissione del virus 10 giorni dopo il primo sintomo ha valore stimato più probabile del 6%, ed è comunque compresa al 95% di confidenza fra circa 1% e circa 10%;
  3. La probabilità di trasmettere il virus è correlata alla carica virale, ma non alla severità della malattia (che risulta quindi a sua volta non correlata all’infettività);
  4. La probabilità di ottenere virus coltivabile, e quindi la trasmissibilità del virus, non è trascurabile nemmeno a cariche virali relativamente basse; in particolare, a Ct pari a 35 è di circa il 10% (con un intervallo di confidenza che arriva fino al 20%), e a Ct circa pari a 37 5 campioni su 60 restituiscono virus coltivabile.

In conseguenza di questi risultati sperimentali, la finestra di infettività si estende al momento oltre il periodo in cui gli anticorpi sono rilevabili con i test serologico (in buon accordo con il fatto che gli anticorpi neutralizzanti si sviluppano dopo la comparsa degli anticorpi rilevabili con gli attuali test) e certamente oltre 10 giorni dopo il primo sintomo, e anche bassi valori di carica virale definiti “debolmente positivi” (Ct=>35) o l’assenza di sintomi non escludono affatto l’infettività in un numero niente affatto trascurabile di casi, soprattutto quando l’epidemia interessa decine di migliaia di soggetti positivi come al momento in Italia.

Enrico Bucci

Data lover, Science passionate, Fraud buster (when lucky...)

12 pensieri su “La finestra di infettività di SARS-CoV-2

  1. Prof grazie!
    Un articolo che mette il.punto su molte insensate discussioni.
    Credo che ora per me i dubbi si dipanano

  2. “Se assumiamo che l’ottenimento di virus coltivabile sia sinonimo di trasmissibilità”. Esistono studi che indaghino la validità di questo tipo di assunzioni, fosse anche per altri virus? Ad esempio trarre conclusioni su una non-differenza di infettività tra asintomatici e sintomatici da questi studi mi sembra opinabile (sembra intuitivo che se starnutisco e tossisco diffondo più virus, mentre affidarsi a queste misure equivale ad escluderlo per costruzione). Rimane comunque un’assunzione meno critica di quelle fatte in He et al. (Nature), citato ad inizio articolo?

      1. Non mi sembra che He et al. facciano questo. Se ben capisco lo negano esplicitamente nella risposta alle critiche menzionate anche in questo articolo.

        “Slifka and Gao misunderstood our argument that the viral load data or their trend was used to infer the temporal infectiousness profile. We specifically did not and could not adopt the said approach because of data limitations worldwide at the time of publication.” (da qui https://www.nature.com/articles/s41591-020-1049-3 )

    1. @Tommaso credo che “trasmissibilità” vada inteso nel senso che si riscontrino particelle virali _funzionalmente_ grado di replicarsi ma non che in funzione di ciò le particelle virali prodotte conducano necessariamente ad un contagio.

      In tal senso le questioni di starnuti e tosse esulavano dallo scopo di indagine per la natura del quesito a cui si intendeva rispondere, non certo perché escluse dalla dinamiche di trasmissione.

      Peraltro, secondo studi sull’influenza, conta anche il tempo di esposizione.
      https://www.corriere.it/salute/malattie_infettive/20_maggio_16/coronavirus-dove-ci-si-ammala-piu-ecco-come-riconoscere-rischi-ed-evitarli-3762a12c-96b6-11ea-a66c-1f6181297d24.shtml

      Poi ci sono altri fattori pertinenti alle caratteristiche che rendono i soggetti più o meno suscettibili al virus.
      La visione d’insieme può essere restituita solo da più studi che focalizzano su aspetti specifici.

      1. @Armando, grazie. Concordo che ci sia un conflitto tra precisione nelle risposte che uno studio può fornire e specificità delle domande che questo si pone. In questo caso mi sembra che la domanda interessante e rilevante sia: chi causa, nel concreto, più infezioni? Quante vengono da individui che hanno sviluppato i sintomi da più di una settimana? Quante da chi li ha sviluppati da più tempo?

        Si può provare a rispondere “direttamente” a questa domanda, o ad una più semplice ma alla quale siamo in grado di rispondere con più precisione. In questo secondo caso però non possiamo però fingere di avere risposto con precisione alla domanda che ci interessa! Se mi si chiedesse quale percentuale delle infezioni proviene da persone che hanno sintomi da più di una settimana, non so quanto gli articoli qui riportati mi aiutino a dare una risposta più precisa di quella in He et al. Oltretutto la loro risposta a questa domanda, se ben capisco (vedere qui https://www.nature.com/articles/s41591-020-1049-3 ) non cambia sostanzialmente una volta assecondate le critiche rivolte al loro articolo. Anzi, in questo caso risulterebbe una percentuale di infezioni ancora maggiore tra gli asintomatici, e minore tra chi ha sviluppato sintomi da molto tempo.

      2. @Tommaso
        Il portatore di “virus non in grado di replicarsi” non causerà contagi a prescindere da quanto possa essere alta la carica, lunga la durata dell’esposizione dei suscettibili, ed elevata la suscettibilità di codesti all’infezione.

        Lo studio in questione si sofferma unicamente sulla fitness del virus veicolato dai portatori. Senza fitness non ci può essere contagio e la domanda dunque è quanto (e quando) possiamo essere sicuri che un portatore possa al massimo diffondere virus non “vitali”.

        D’altro canto per infettare non basta che la carica virale sia “vitale” giacché se è troppo bassa (per superare le difese di quel singolo suscettibile) non ci sarà contagio.
        Dunque avendo solo l’assoluta mancanza di fitness come indicazione statisticamente attendibile ci può portare a stime “prudenti” della impossibilità di contagio.

        L’approccio appare applicabile anche a campioni prelevati prima della comparsa dei sintomi nel portatore: Lo studio di Wölfel esamina campioni prelevati dopo la comparsa di sintomi, quello di Singanayagam invece ne include una piccola percentuale (fig 3) prelevata in fase presintomatica.

        Non risulta abbiano escluso che il virus non abbia fitness durante la fase presintomatica:

        «Based on the real-world data described here, we recommend that infection control measures for persons with mild-to-moderate COVID-19 be particularly focussed immediately after onset of symptoms and retained for 10 days. Asymptomatic and presymptomatic persons are likely to be a source of infectious virus. Detection of cultivable SARS-CoV-2 from URT samples is valuable as a proxy for infectiousness; however, as the human infectious dose remains unknown, the significance of low titres of infectious virus for human-to-human transmission remains uncertain. Correlation with observational epidemiological data analysing known infector–infectee pairs is required to fully understand the dynamics of infectiousness and viral transmissibility.»https://dx.doi.org/10.2807%2F1560-7917.ES.2020.25.32.2001483

        PS: Giacché non ci sono garanzie neanche che tutti i suscettibili saranno esposti al virus per la stessa durata, ho difficoltà a capire i meriti dello stabilire “chi contagi di più” quando per farlo si devono necessariamente garantire “parità di condizioni” rilevanti per il contagio.

        Ammesso che nel campione di casi esaminato da He et al. una proporzione significativa di contagi si possa essere verificata nella parte presintomatica dell’infezione, se altri campioni menzionati nella risposta degli autori et al. forniscono proporzioni differenti (presumo sempre a causa di intuibili fattori confondenti non controllati) da inesperto mi chiedo come si faccia a stabilire se il valore “vero” sia mai stato a portata di mano…

      3. @Armando
        Grazie ancora della risposta. Le mie domande riguardano generalmente le implicazioni di policy che si possono trarre da questi articoli, ad esempio per quanto riguarda la durata ottimale della quarantena, o le conseguenze in termini di isolamento a seguito di un test serologico positivo. Mi sembra che questi studi, che si concentrano sulla possibilità di ottenere virus infettante ad n giorni dalla comparsa dei sintomi, possano essere consultati per stabilire un limite superiore alla durata ragionevole dell’isolamento, non per dare una stima della durata ottimale di tale isolamento. Di conseguenza, le uniche implicazioni che mi sembra pacifico trarre da questa evidenza sono che laddove si stiano tenendo individui isolati più a lungo di tale limite (e.g. necessità di un doppio tampone negativo) si sta eccedendo nella prudenza, anche a fronte di un costo importante per chi rimane isolato. Mi sembra invece opinabile trarne conclusioni circa limiti inferiori alla ragionevole durata dell’isolamento, e usare questi studi per criticare norme troppo poco stringenti.

  3. Ci sarà pure un motivo per il quale mi sono iscritto al blog (si dice così???) “CATTIVI SCIENZIATI”?
    Ottimo articolo grazie.
    Enrico Fravili

  4. Articolo molto valido, sul quale chiederei due chiarimenti:
    > a commento della figura 1f, viene detto che “si vede come gli autori non siano riusciti a coltivare virus oltre 8 giorni dopo l’inizio dei sintomi (pallini rossi)” Ma dalla figura sembra invece che quest’impossibilità sia sorta solo dopo 12 giorni, quando la linea continua tocca l’asse delle ascisse “Days after onset of synptoms”. Forse mi sfugge qualcosa?
    > mentre in figura 1g è riportata l’unità di misura della carica virale Log(RNA copies/ml) in figura 2 non è riportata quella del Ct value, espresso con numeri crescenti al diminuire della carica virale.
    Ho trovato particolarmente utile l’articolo di Bromage, Ph.D. all’università del Massachusetts, linkato da Armando e letto già tempo fa (che, se possibile, consiglierei di leggere in inglese qui https://www.erinbromage.com/post/the-risks-know-them-avoid-them ) perché contenente delle considerazioni sia pratiche che di tipo quantitativo, come le circa 1.000 particelle virali sufficienti per infettarsi se inalate, i 3.000 droplets espulsi a 80 km/h con un colpo di tosse (50 mph) e addirittura 30.000 droplets espulsi a 300 km/h (uno studio sempre americano parla però di 100 mph pari a 160 km/h), ma in ogni caso non sono questi valori ad essere rilevanti quanto uno studio, sempre citato da Bromage, sull’improbabilità di infettarsi all’aperto e del quale raccomanderei la lettura https://www.vox.com/future-perfect/2020/4/24/21233226/coronavirus-runners-cyclists-airborne-infectious-dose

    1. La linea più o spessa rappresenta il valore medio, mentre quelle più sottili rappresentano i limiti dell’intervallo di confidenza al 95% (il 95% dei risultati è in quel gruppo, quindi la linea rappresenta i percentili 2.5 e 97.5). Detto questo, l’8 giorno l’intervallo comprende lo 0, quindi è possibile trovare una coltura negativa; il 12 giorno il 50% dei campioni ha dato una coltura negativa; dal grafico non si vede quando il 95% dei campioni ha dato esito colturale negativo.

      1. @GZ: devi guardare i punti rossi, che rappresentano i dati (la percentuale di colture positive da campioni raccolti n giorni dopo i sintomi, con n=4,6,8,10,…) e non la linea continua, che è una qualche interpolazione non lineare degli stessi. Lo 0% delle colture del giorno 10 ha dato esito positivo, così come per i giorni 12 o 14.
        Riccardo fa un po’ di confusione: l’intervallo di confidenza non indica quello che lui dice in parentesi, non comprende lo zero all’ottavo giorno (se così fosse gli autori avrebbero calcolato questi intervalli in maniera davvero balzana!) e si trovano colture che non danno esito positivo anche pochissimi giorni dopo l’inizio dei sintomi. L’intervallo è dovuto al fatto che si cerca di stimare la probabilità di sviluppare una coltura positiva dopo n giorni. Siccome si è provato a farlo solo un numero limitato di volte, la stima ottenuta (numero di colture positive fratto numero di tentativi) sarà chiaramente imprecisa. L’intervallo cerca di rendere conto di questa imprecisione, allargandosi intorno a quelle stime più imprecise (ad esempio perchè basate su di un numero più basso di osservazioni).

Rispondi a Riccardo Zandonella CallegherAnnulla risposta

Scopri di più da Cattivi Scienziati

Abbonati ora per continuare a leggere e avere accesso all'archivio completo.

Continue reading