Dibattito democratico o falso confronto?

E’ un vecchio trucco, antico quanto l’uomo, quello di lanciare una sfida dialettica a confrontarsi in un’arena con un pubblico di tifosi dell’una e dell’altra parte; è un mezzo che ha l’unico scopo non di arrivare ad una posizione condivisa – meno che mai ad un consenso scientifico su certi fatti – ma al contrario di dimostrare che consenso non c’è, attraverso lo spettacolo di un “dibattito democratico” che è in realtà un falso confronto, perché non rivolto a misurare e pesare le evidenze, ma le persone che partecipano a questi eventi.
Lanciare ai ricercatori la sfida al “confronto democratico” ha poi un doppio vantaggio: se la sfida è accettata, si affronterà il malcapitato ricercatore su piani molto diversi da quelli scientifici e contrapponendo pseudoscienza alla scienza (basandosi sulla incapacità del pubblico di pesare realmente il ragionamento scientifico); se invece la sfida è riconosciuta per quella che è, e dunque rifiutata, si griderà alla mancanza di democrazia e all’arroganza degli scienziati e della “scienza ufficiale”.
Siccome però questo tipo di retorica non è certo una novità, proviamo ad esaminare la questione, per vedere quanto gli inviti a certi tipi di dibattito siano una rumorosa messinscena da parte di sedicenti amanti della democrazia (in realtà, illiberali sostenitori dello scontro antiscientifico).
Innanzitutto, è necessario riconoscere che il dibattito dialettico può avvenire su molti piani (incluso quello emotivo) e con molti scopi diversi.
Se però si vuole un dibattito scientifico, perché si intende appurare quale sia la migliore evidenza disponibile in merito ad una questione e quali siano le più solide conclusioni che è possibile trarre dai fatti, è necessario non solo presentare dati, ma soprattutto argomentare in modo scientifico dei metodi adottati per raccoglierli e di quelli usati per derivarne conclusioni.
Ora, così come non si può imbastire un colloquio sulla grammatica parlando in turco ad uno che comprenda e parli solo l’italiano, ma bisogna accordarsi su una lingua e delle regole grammaticali comuni, allo stesso modo argomentare in modo scientifico significa seguire le regole del ragionamento quantitativo, cioè di quel modo di pensare che costruisce evidenze sulla base di analisi quantitative e di logica formale.
Tuttavia, in generale le persone non sono granché in grado di procedere in questo modo di pensiero, non più di quanto gli italiani siano capaci di parlare turco. Questo accade perché le capacità necessarie non sono innate, ma ci vuole un lungo periodo di allenamento e specializzazione per riuscire (diciamo per fare un mero esempio almeno una decina di anni di studio oltre quelli della scuola).
Proprio per la mancanza di sufficiente allenamento al pensiero analitico quantitativo, le persone possono difficilmente farsi un’idea di chi ha ragione o torto in un’argomentazione che sia davvero scientifica (non hanno le capacità necessaria per seguirne lo sviluppo).
Ne segue che chiedere di assistere ad un dibattito scientifico che abbia per scopo raggiungere evidenze solide, senza avere le capacità di analisi quantitativa e formale richieste, significa in realtà chiedere di assistere ad una sorta di spettacolo televisivo, in cui a prevalere non sarà chi porta i migliori argomenti e le migliori deduzioni quantitative, ma chi è più vicino emotivamente alle posizioni della maggioranza del pubblico.
Proprio su questo contano gli organizzatori di simili spettacoli: si presentano “alla pari” opinioni pseudoscientifiche o di una piccola frangia di ricercatori con quelle più consolidate nella comunità scientifica, ben sapendo che il pubblico, non essendo in grado di seguire le argomentazioni nel merito, sceglierà su base emotiva e valoriale ciò che sembra essere “più onesto”, “più democratico”, “più disinteressato”.
Questa presentazione “alla pari” ha lo scopo di fare apparire l’opinione degli esperti come divisa e la comunità scientifica come spaccata, in modo da legittimare la volontà di far scegliere quale sia la miglior scienza alle persone comuni; il che spiega anche l’affannosa ricerca di “esperti alternativi” e il loro successo duraturo, visto che servono per giustificare la rappresentazione finta di una spaccatura inventata.
Naturalmente, per sbilanciare ulteriormente a favore di una scelta valoriale il presunto “dibattito democratico”, ingrediente fondamentale è anche la denigrazione dei ricercatori: i quali, infatti, sono invariabilmente dipinti come privi delle competenze e dei titoli necessari, come asserviti al potere delle grandi aziende, come fanatici di un pensiero dogmatico (perché è facile far passare per dogma ciò che non si comprende), come nasconditori della verità di terribili fatti, dannosi per la salute, l’ambiente, gli interessi più cari dei cittadini, al contrario degli “esperti alternativi”, dipinti invariabilmente come dalla parte del cittadino (anche quando di questo profittano abbondantemente).
Questo tipo di attacchi, semplice ed efficace grazie ad Internet, prepara il terreno in vista dell’evento; il resto lo faranno valori e convincimenti personali, i toni alterati e se necessario l’esibizione della rabbia, così che dei dati, delle analisi quantitative e delle possibili soluzioni razionali non resterà nulla.
Ecco perché i ricercatori e la comunità scientifica, se si ha a cuore il bene sociale e quello dei cittadini, devono confrontarsi con regole diverse e solo tra pari quando si ricerchi un consenso scientifico su particolari problemi: perché il dibattito tecnico, che si svolge sulle riviste scientifiche, nelle aule universitarie, nei convegni scientifici internazionali, non è cosa che possano decidere tifosi, poeti o avvocati, ma chi di mestiere fa di conto, cercando gli errori nei conti fatti dagli altri ed esaminando i dati e le evidenze che possono cambiare nel tempo, ricalibrando ogni volta e raffinando le proprie conclusioni – se necessario capovolgendole di fronte a nuovi dati più solidi. È così che si esercita produttivamente l’arte del dubbio scientifico, che tanti strumentalmente richiamano per attaccare i ricercatori come dogmatici: attraverso l’attacco quantitativo ad una teoria preesistente, sulla base di nuovi dati o di nuove intuizioni matematiche, non certo sulle pagine di Facebook o attraverso le teorie sconclusionate di qualche cialtrone che confonde lo scetticismo produttivo del ricercatore con il nichilismo parolaio di certi arruffapopolo da due soldi.
Ed è per questo che il dibattito scientifico si svolge tra esperti e tecnici, i quali portano solo in un secondo momento al pubblico le proprie conclusioni – quando ve ne sono e quando è possibile. In quel fatidico momento, essi agiscono non come sacerdoti che enunciano la verità, ma come artigiani che faticosamente sono riusciti a mettere insieme i fatti disponibili in una forma intellegibile, utilizzando le abilità sviluppate in una vita di attenzione ai metodi, ai dettagli, ai numeri. Ed allo stesso modo in cui, quando ci consegnano le chiavi di una nuova automobile, non pretendiamo di smontarla per verificare se sia stata assemblata sulla base dei nostri personali convincimenti e senza sapere nulla di motori, così quando ci viene presentato il consenso scientifico prevalente su una certa questione, ciò non avviene perché le conclusioni dei ricercatori siano poste in discussione sul piano scientifico da chi non è in grado di seguire la procedura attraverso le quali sono state raggiunte, ma perché sulla base di quelle conclusioni si prendano decisioni informate.
Certo, vi possono essere singoli ricercatori o interi gruppi di ricerca disonesti, che hanno interesse a presentare conclusioni fuorvianti; ma ciò che conta è che anche la comunità scientifica, fatta di persone che come tutte le altre vivono sul nostro pianeta, nelle nostre città e nelle nostre società, ha nel suo complesso a cuore le sorti degli esseri umani, dell’ambiente, dei lavoratori e di ogni altro componente del nostro mondo. Per questo, conviene considerare cosa afferma la comunità scientifica nel suo complesso o a larga maggioranza e adottarne le conclusioni, invece di seguire qualche sparuto individuo eterodosso fatto passare per genio incompreso (il quale è peraltro spesso indistinguibile da un ciarlatano o da uno pseudoscienziato).[1]
Qui, solo al punto in cui è possibile identificare un consenso scientifico, entra in gioco il “confronto democratico” tra cittadini per decidere se agire in un modo o in un altro, assumendosi la responsabilità di una scelta informata dalle migliori evidenze scientifiche disponibili.
Con buona pace degli agita popolo, dei professionisti dell’antiscienza, dei ciarlatani di ogni risma e di tutti coloro che intendono prendere in giro i cittadini accusando i ricercatori di mancanza di senso democratico perché rifuggono dai falsi confronti e denigrandoli dietro una tastiera: la scienza è sì democratica, ma come la democrazia liberale si avvale di leggi, organismi, dibattito moderato da regole precise, e l’opinione scientifica non si forma nel tinello degli attivisti di questo o quell’altro movimento.
Uno non vale
uno.
[1] Anche perché, come insegnano i casi di Galileo, Newton, Darwin, Einstein i veri geni sono difficilmente incompresi ed isolati dalla comunità – al contrario ne spostano molto rapidamente l’opinione prevalente.
Articoli come questo dovrebbero aprire le menti alle persone alfine di comprendere la validità del metodo scientifico. Ragionando in base alla metodologia del metodo scientifico, difficilmente cialtroni e populisti potrebbero avere spazio nel governo del paese e delle istituzioni.