OMICRON: aggiornamenti per il fine settimana

OMICRON: aggiornamenti per il fine settimana

Cominciano ad emergere alcuni fatti meritevoli di essere riportati riguardo la nuova variante Omicron.

Discuterò qui, in particolare, 3 preprints pubblicati negli ultimi giorni, i quali costituiscono tutti un avanzamento delle nostre conoscenze, preliminare e parziale quanto si vuole, ma pur sempre utile a non brancolare completamente nel buio.

I primi dati epidemiologici confermano la capacità di Omicron di evadere almeno parzialmente la risposta immune costruita precedentemente contro altre varianti.

Un gruppo di ricercatori sudafricani è andato ad esaminare il tasso di reinfezioni durante il periodo in cui il Sudafrica è stato colpito da precedenti varianti e nel periodo più recente, in cui alcune province sono state colonizzate fino a veder prevalere la variante Omicron. A partire da 2.796.982 casi di infezione conferrmata sono stati identificati 35.670 casi di probabile reinfezione; questo ha permesso di stimare con due diversi metodi il rischio di reinfezione prima e dopo l’emersione della variante Omicron, pubblicando i risultati in un nuovo preprint. Questo rischio risulta accresciuto di circa 2-3 volte da quando è arrivata la variante Omicron.
Il dato cruciale è rappresentato nella figura 5A del preprint, riportata qui di seguito.

Nella figura in alto, la linea verde rappresenta il rischio di reinfezione, mentre la nera rappresenta il rischio di infezione primaria. Si nota innanzitutto come il rischio di reinfezione nella popolazione considerata salga a partire da Ottobre, a testimoniare una minore immunità conferita dalle infezioni precedenti e quindi una possibile maggiore immunoevasività di Omicron; si vede anche che la linea nera, ovvero il rischio di infezione primaria, cresce fino a Settembre e poi diminuisce.
La diminuzione del rischio di infezione primaria nella popolazione sudafricana è attesa in presenza di una variante immunoevasiva: siccome, infatti, i Sudafricani si sono già infettati per oltre il 70%, finchè il virus non è in grado di superare l’immunità di popolazione, l’aumento di infettività delle varianti fino alla delta guida l’aumento di rischio di prima infezione; con la Omicron, che può infettare anche i soggetti precedentemente infettati, il grosso del serbatoio di suscettibili è fatto da soggetti precedentemente infettati, e dunque si osservano più reinfezioni che prime infezioni – visto che i precedentemente infettati sono molto di più dei mai infettati, ma entrambi i gruppi sono suscettibili.

L’immunoevasione, da sola, può spiegare un maggior tasso di reinfezioni rispetto alle infezioni primarie in una popolazione largamente infettata in precedenza da altre varianti; non vi è strettamente bisogno per spiegare questo risultato di ipotizzare una maggiore infettività.

Allo stesso tempo, la crescita veloce dei casi nella popolazione sudafricana, più veloce di quanto osservato con le precedenti varianti, può essere spiegata dall’improvviso venire a mancare dell’immunità naturale conferita dalle precedenti infezioni; sebbene certamente la Omicron possiede mutazioni che conferiscono maggiore infettività e maggiore trasmissibilità, i dati epidemiologici sin qui discussi, da soli, non sono sufficienti a dare una stima precisa, e bisogna attendere prove più dettagliate.

Infine, c’è da dire che lo studio in questione non fornisce alcuna informazione sulla robustezza dell’immunizzazione indotta dal vaccino contro la variante dell’omicron. Questa può essere diversa dall’immunizzazione indotta da precedenti infezioni, come già osservato per altre varianti in precedenza, a causa del fatto che, durante una infezione naturale, il virus modula la risposta immune – pensiamo per esempio agli effetti sugli interferoni specifici di SARS-CoV-2; dunque anche in questo caso, sebbene dal profilo mutazionale si desume che vi sia immunoevasione almeno parziale nei confronti della risposta anticorpale, non possiamo generalizzare i risultati dello studio; dobbiamo inoltre ricordare che la risposta ad un vaccino è anche di tipo T, e questa, guardando ancora al profilo mutazionale, dovrebbe risultare meno intaccata.

Una delle mutazioni riscontrate in Omicron deriva probabilmente dall’acquisizione di materiale genetico umano o di un altro coronavirus umano.

In un secondo preprint, un gruppo di ricercatori ha identificato una piccola regione della proteina Spike di Omicron in cui è presente una inserzione di 3 amminoacidi, corrispondenti a 9 basi nel genoma virale, mai osservata in nessuna sequenza di SARS-CoV-2 precedentemente nota. Come si vede nella figura 2 del preprint, riportata di seguito, la sequenza appare identica a quella di altri coronavirus umani, legati a blande condizioni respiratorie, i quali sono noti per coinfettare l’uomo insieme a SARS-CoV-2 e per avere dei recettori sulle stesse cellule polmonari e intestinali che esprimono il recettore ACE2 di SARS-CoV-2.

Taluni commentatori, medici e non, si sono immediatamente affrettati a prospettare ottimisticamente che l’assunzione di questa sequenza genetica da un virus del raffreddore sarebbe l’inizio del solito, auspicato processo di “rabbonimento” del virus, che attraverso l’acquisizione di genoma di virus più benigni starebbe a sua volta diventando più benigno.

Si tratta di dichiarazioni scandalistiche quanto meno incaute, a causa dei seguenti motivi (riportati per altro dagli stessi autori del preprint in question):

  1. Non esiste nessuna analisi della funzione dell’inserzione di 3 amminoacidi riscontrata nella proteina Spike di Omicron; tanto meno esiste alcuna analisi delle sue conseguenze cliniche.
  2. Come si nota dalla figura S4 del lavoro (riportata sotto) e nella discussione dei risultati, l’inserzione riscontrata potrebbe provenire da una moltitudine di altri RNA umani, senza aver coinvolto affatto un coronavirus del raffreddore; questo a maggior illustrazione del fatto che la sequenza in questione potrebbe avere una moltitudine di funzioni per il virus – inclusa per esempio la possibilità di “travestire” un epitopo di Spike da proteina umana, evitando così il riconoscimento immune.

Lanciarsi adesso in avventurose dichiarazioni circa il possibile rabbonimento del virus è, come al solito, prematuro e infondato; se sarà così, lo vedremo – in ogni caso ci va ben altro che una sostituzione di tre amminoacidi su Spike, la cui origine, per il momento, non è ancora dimostrata con precisione.

Il lavoro in questione, comunque, è davvero interessante, perchè mostra una volta di più il ruolo della ricombinazione del genoma di SARS-CoV-2 con materiale di provenienza diversa, ad aumentare le possibilità adattative del virus in grado di farlo meglio prosperare a nostre spese.

L’anticorpo monoclonale Sotrovimab di Glaxo mantiene la sua attività anche in presenza di alcune delle mutazioni chiave di Omicron.

GlaxoSmithKline e Vir Biotechnology hanno pubblicato un preprint con dati preclinici che dimostrano che il sotrovimab, un anticorpo monoclonale sperimentale, mantiene l’attività contro le mutazioni chiave della nuova variante Omicron, ivi incluse le mutazioni trovate nel sito di legame di sotrovimab. Questi dati sono stati generati attraverso test di pseudo-virus su specifiche mutazioni trovate in Omicron, testando le mutazioni individualmente (una alla volta). Ad oggi, il sotrovimab ha dimostrato un’attività in corso contro tutte le varianti testate di preoccupazione e interesse definite dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). Le aziende stanno ora completando i test sugli pseudo-virus in vitro per confermare l’attività neutralizzante del sotrovimab contro la combinazione di tutte le mutazioni di Omicron con l’intento di fornire un aggiornamento entro la fine del 2021.
Ora, al di là del risultato che più interessa alle aziende e allo sviluppo del particolare anticorpo monoclonale in questione, questa è una buona notizia di interesse generale, perchè significa che almeno alcuni degli anticorpi naturalmente prodotti dal nostro sistema immunitario in risposta alle prime varianti (e possibilmente anche ai vaccini), potrebbero mantenere attività contro la Omicron.
Vi è quindi la concreta possibilità che l’immunoevasione dalla risposta anticorpale da parte di Omicron abbia dopotutto dei limiti; il che sarebbe in linea con il fatto che, visto che la risposta immune genera anticorpi contro una moltitudine di epitopi di Spike, e considerato che non tutte le mutazioni rendono un epitopo invisibile agli anticorpi, almeno in parte la Spike di Omicron dovrebbe continuare a essere riconosciuta.
Naturalmente, questi sono solo i primi dati disponibili, e non è detto che, alla fine, la residua attività degli anticorpi di soggetti immunizzati risulti sufficiente; staremo a vedere, quando arriveranno a breve nuovi, più dettagliati dati.

Enrico Bucci

Data lover, Science passionate, Fraud buster (when lucky...)

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