Diritto di opinione e dibattito scientifico

Spesso si ricevono le proteste, da accorate ad arrabbiate, di chi, ritenendo che certe opinioni non abbiano abbastanza spazio, lamenta un pericolo per la democrazia, accusando magari i mancati interlocutori di mancanza di senso democratico.
Di questi tempi, a me succede tipicamente su alcuni argomenti: le cosiddette terapie domiciliari per COVID-19, la presunta pericolosità dei vaccini, il green-pass, l’uso delle mascherine, ed insomma un gran numero di argomenti che trovano sì origine nel dibattito scientifico, ma che, avendo impatto sulla vita di tutti, tendono naturalmente a trasformarsi in oggetto di accalorate discussioni, quando non peggio.
Vorrei a questo punto provare a chiarire una volta per tutte un po’ di punti elementari, che credano sfuggano soprattutto a chi non è pratico di scienza, pur avendo magari approfondite conoscenze di arte, di letteratura, di filosofia, di diritto o quant’altro.
In democrazia, è vero, il diritto di opinione è fondamentale, ma da questo non discende affatto che tutte le opinioni abbiano lo stesso peso. Cruciale, ovviamente, è appunto il metodo con cui stabiliamo quale sia il peso da dare ad una certa opinione su una determinata questione.
Vi sono innanzitutto opinioni non lecite, perché contraddicono le leggi o il nostro ordinamento; se io pretendessi di difendere la posizione che sia giusto discriminare gli ebrei e mandarli nei forni crematori o di crocifiggere i cristiani come al tempo di Nerone, starei commettendo probabilmente un reato, perché questo tipo di opinioni viene riconosciuto come talmente pericoloso, da meritare censura e punizione. A parte questi pochi casi estremi, in democrazia si ricorre, sostanzialmente, alla conta delle teste che condividono una certa tesi, attraverso l’espressione di un voto, universale o delegato ai nostri rappresentanti. Ciò, tuttavia, non avviene per ogni questione sollevata; gli atti parlamentari sono pieni dell’espressione di opinione di singoli individui, che non è sfociata in voti o altri processi decisionali. Esiste cioè una serie di regole per valutare anche ciò di cui vale la pena discutere e su cui bisogna decidere, prima ancora di entrare nel merito. Esistono opinioni giudicate irrilevanti o comunque non meritevoli di discussione. L’insieme delle regole per decidere quali siano opinioni illecite, quali siano irrilevanti e quali meritevoli di discussione, ed infine per queste ultime di decidere quali siano quelle opinioni che reputiamo giuste e che possono formare la base di una decisione, è appunto l’essenza stessa del nostro ordinamento democratico.
Dunque: in democrazia, posso sì esprimere quasi ogni opinione, ma non è affatto vero che ogni opinione meriti attenzione, rappresentanza e quindi discussione pubblica. Se fosse davvero necessario discutere di ogni opinione per vivere in democrazia, la democrazia non potrebbe essere altro che una chimera.
Stabiliti questi pochi elementi, proviamo ad esaminare la discussione di opinioni di natura scientifica. Innanzitutto, in una discussione scientifica si può discutere solo di un certo tipo di opinioni, o tesi: quelle che siano sottoponibili a indagine attraverso la raccolta e l’analisi di fatti sperimentali (fatto salvo il caso in cui possano essere derivate attraverso una procedura logico-matematica da assunti ben stabiliti). Perché? Per la semplice ragione che le opinioni scientifiche si pesano non sulla base delle teste, ma sulla base dei fatti che le sostengono. Non si interrogano gli elettori, ma il mondo fisico; e la procedura, che in democrazia è quella stabilita dalle norme elettorali e del voto parlamentare, in scienza è quella stabilita dalle procedure sperimentali e statistiche cui si deve sottostare perché i “fatti” possano essere pesati, così come le regole elettorali servono a pesare i voti. Nel dibattito scientifico, contrariamente a quello ordinario, si vuole idealmente che siano i fatti a parlare, non gli scienziati; e perché i fatti possano permettere di discriminare tra tesi alternative, è necessario che tali tesi o opinioni siano formulate in maniera opportuna. Questo vincolo porta a scartare dalla discussione moltissime delle idee di improvvisati interlocutori scientifici, che credono sia sufficiente enunciare qualcosa per aver diritto al dibattito, i quali poi nella frustrazione di non ricevere risposta accusano gli scienziati di “chiusura mentale”. Come non si esprime il voto a casaccio durante un’elezione – non si scrive per esempio sui muri, ma si procede attraverso una cabina elettorale ed una certificazione, in modo da pesare il consenso per una data tesi politica – così avviene che, in scienza, formulare un’opinione richiede di farlo in un modo che essa possa essere pesata e valutata con il metodo scientifico.
Questo perché siano i fatti, e non le teste, a dare un peso alle varie opinioni, degli scienziati o di chiunque altro; i fatti attraverso un sistema rigoroso di pesatura, proprio come rigoroso è il modo in cui si esprime il voto e si misura la volontà dell’elettorato e del parlamento.
Inoltre, se si pretende non solo di formulare un’opinione scientifica, ma anche di sostenerne la correttezza, è necessario portare dei fatti raccolti a supporto; fatti che anche in questo caso non possono provenire da letture o esperienze a casaccio, magari da Google, ma dall’applicazione di un metodo per la loro raccolta e di un’analisi statistica per la determinazione della loro forza, proprio come per decidere quale opinione prevale in Parlamento non si procede a sentimento, ma sulla base dei regolamenti e metodi predeterminati.
Dunque, se oltre a voler proporre una possibilità all’attenzione degli scienziati, si vuole pure pesarne il merito, è necessario non solo che un’opinione sia stata formulata in modo da poter essere sottoposta a prova sperimentale, ma anche che tale prova sia stata condotta, in maniera più o meno approfondita, e che i risultati raccolti siano stati organizzati e presentati in forma statistica.
Tutto ciò che è al di sotto di questo standard minimo, ma viene sbandierato per esempio in forza dell’opinione di qualche personaggio illustre che riteniamo essere degno di fiducia, non può essere accettato né discusso, per la semplice ragione che non conta chi dica qualcosa, ma quali fatti porta a sostegno. Rifiutare l’opinione di un Nobel, per esempio, non è automaticamente segno di arroganza, ma può essere semplicemente dovuto al fatto che non sono stati portati dati, oltre al nome del Nobel in questione. Nemmeno al bar, figuriamoci nelle istituzioni democratiche, ascoltiamo qualcuno solo per il nome che porta; non è questione di mancanza di democrazia, ma semplicemente di irrilevanza del principio di autorità.
Quando, formulata correttamente un’opinione scientifica e portati i dati a suo supporto, la discussione scientifica può cominciare, è necessario essere preparati a dimostrare quale fra due o più ipotesi, ciascuna corredata di fatti, sia la migliore. Esistono metodi anche per questo, che non starò qui a discutere, ma il cui elemento di base è questo: trovare un modo di verifica sperimentale che dia esiti sufficientemente (in senso statistico) diversi, secondo quale delle due o più ipotesi sia migliore. Notate che uso volutamente il termine migliore, non vera: perché ogni tesi, per quanto suffragata da dati, potrà un giorno incontrare anche un singolo fatto in grado di demolirla. Fino a quel giorno, ed in mancanza di ipotesi migliori che siano in accordo anche con quel fatto e con tutti quelli precedentemente spiegati dall’ipotesi soccombente, tuttavia, ogni ipotesi gode dello status di “verità scientifica”, con quel senso di provvisorietà inerente al metodo.
E questa “verità scientifica” è quella che possiamo ricavare dall’analisi della letteratura tecnica su un certo argomento (non di un singolo articolo); e a questa è necessario attenersi, misurandone solidità (cioè numero di fatti ed esperienze a supporto), utilità (cioè capacità di fare previsioni utili su scala più o meno ampia, per gli scopi che ci si prefigge di raggiungere) ed infine compatibilità con il resto della conoscenza scientifica.
Insomma: se la vostra opinione non fosse discussa dai ricercatori, e se l’argomento è di natura scientifica, prima chiedetevi se davvero è discutibile, invece di credere che il problema sia la mancanza di democrazia. Potreste dopotutto scoprire una nuova maniera di formulare il vostro pensiero, questa sì interessante e meritevole di discussione, senza scomodare filosofia, democrazia e diritto di opinione.
Non ci sono “verità negate”, “verità scomode” o altro in scienza, nemmeno in presenza di conflitti di interessi: questo per la semplice ragione che i ricercatori sono moltissimi, e non c’è un interesse unico a comandarli tutti. Ci sono invece discussioni che meritano di essere condotte, ed altre che sono semplicemente non discutibili in termini scientifici per palese indecidibilità sperimentale, oppure troppo banali, oppure già discusse. Per piacere, non pretendete di usare il tempo mio e dei colleghi per queste ultime, ma concentratevi sulle prime.
Nella lucida spiegazione potrebbe giovare dare maggiore rilevo al ruolo chiave che ha il “modo di verifica sperimentale” (disegno sperimentale) e come questo debba necessariamente superare lo scrutinio della comunità scientifica per poter prendere i considerazione i “fatti sperimentali” sulla base di questo prodotti. In un certo senso i “fatti” sono inscindibili dalla metodologia (corretta o fallata) che li ha generati.
Altra considerazione è che gli errori metodologici (sufficienti a causare la ritrattazione delle pubblicazioni) possono non essere dovuti a malafede giacché la capacità di riconoscere errori dipende dal livello di conoscenze della disciplina.
Questo è anche il motivo per cui chi è inesperto può erroneamente credere che certe tesi siano state scartate senza “apparente” motivo: affinché il motivo sia apparente sono necessarie cognizioni propedeutiche e chi non le ha non necessariamente potrebbe essere in grado di identificarle autonomamente.
Gentile Enrico, interessanti le sue considerazioni basate sull’obiettivismo ingenuo. Le consiglio di leggere (o rileggere) la Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale di Edmund Husserl, come esercizio alla distinzione tra Episteme e Techne, tra il sapere cosa si fa e il saper fare.
Cordialmente
Gentile Daniele, certe critiche, per essere interessanti, avrebbero bisogno di essere esplicitate meglio; non basta citare l’inventore della bislacca fenomenologia in filosofia e citarne a caso due parole in croce. Peraltro, se proprio vogliamo parlare di Husserl – che, ripeto, è lontanissmio dall’argomento del mio articoletto – le consiglio di partire dalla critica che ne fece Adorno; il quale lo accusava, in sostanza, di essere caduto vittima dello stesso positivismo scientista da cui intendeva liberarsi, con l’aggravante di assunzioni non giustificate e dell’uso di un linguaggio oscuro. Ma, ripeto, questa discussione non è legata all’argomento che qui si discute, e come tale finisce qui.
Comunque le rinnovo il consiglio di leggere La crisi, ma non sia permaloso e non si fidi troppo di Adorno!