Un’emergenza non strana 1/2

Un’emergenza non strana 1/2

Introduzione: il meccanismo della spiegazione eccezionale

Di fronte ad eventi insoliti o eccezionali, che per questo sembrano strani, tutti noi – medici ed esperti inclusi – siamo preda di un bias, che consiste nel ricercare la spiegazione in circostanze e fatti altrettanto insoliti ed eccezionali, preferendo ipotesi attraenti a ciò che già sappiamo e che potrebbe funzionare altrettanto bene nello spiegare ciò che osserviamo.

E’ esattamente quanto stiamo osservando nel caso dell’epidemia di COVID-19 in Italia. Non vi è dubbio che la sua diffusione, i danni che sta provocando in ambito sanitario e le morti che provoca siano eccezionali per le generazioni di Italiani oggi in vita (sarebbero apparse molto meno spaventose e inattese ad un italiano del ‘300, che poteva vedere nella sua vita ben più di un’epidemia ad alta letalità).

Ipotesi con maggiore o minore fondamento, basate – quando va bene – su correlazioni che potrebbero essere spurie e su scarse evidenze in supporto, ci sembrano appropriate proprio perchè, per la loro eccezionalità o scarsa considerazione presso la comunità scientifica, sono altrettanto poco frequenti dell’evento a cui assistiamo.

Si cerca di correlare la maggiore o minore diffusione del virus con la presenza di particolato atmosferico, la densità di fabbriche a livello regionale, la presunta “voglia di lavorare” di supposte popolazioni diverse (che porta a stipare le metropolitane la mattina), dimenticando che le variabili confondenti da escludere (prime fra tutte la semplice densità di popolazione e di scambi commerciali, che correlano almeno con i primi due fattori) sono tali e tante da non poter classificare quanto osservato in altro modo che come una correlazione spuria, in attesa di prove dirette sul virus.

Si arriva persino ad ipotizzare, senza lo straccio di una prova, mutazioni che specificamente innalzino letalità ed infettività del virus in Italia; possibili, sì, ma finora non riscontrate in nessuna delle sequenze virali ottenute su pazienti italiani o su pazienti infettati in Italia.

E’ arrivato il momento di concentrarci su quello che sappiamo, sia su questo che su altri virus simili, così da scartare un po’ di ipotesi non necessarie e concentrarci su fatti noti da tempo per prendere misure migliori delle attuali.

In questo articolo, ci preoccuperemo di un primo aspetto: l’andamento generale dell’epidemia, che a taluni osservatori appare eccezionalmente incontenibile in Italia. Nel prossimo, ci occuperemo della anomala letalità del virus in Italia.

Perchè non riusciamo a contenere l’epidemia?

La percezione che oggi si ha in Italia è che le cose stiano andando peggio che in altri paesi, cioè che ci sia un’esplosione di contagi più repentina e più estesa che altrove – anche in assenza di numeri affidabili sui contagi, visto che i positivi al tampone non ci danno nessuna idea di quanti essi siano in realtà. Inanzitutto, dobbiamo chiederci: l’epidemia si sta davvero diffondendo ad una velocità maggiore che in altri paesi? Se crediamo che la positività ai tamponi rappresenti in modo affidabile ed omogeneo tra paesi diversi una percentuale più o meno fissa del numero totale di infetti, il grafico seguente (la fonte è qui) ci dice che, grossolanamente e con l’eccezione della Corea del Sud, l’epidemia procede allo stesso modo in tutti i paesi.

Al di là della robustezza delle assunzioni che dobbiamo fare per paragonare curve di crescita dei positivi al tampone tra nazioni diverse e per assumere che il loro andamento sia proporzionale alla crescita del numero di infetti (molto più grande), resta il fatto che l’anomalia della Corea del Sud è ovvia ed è l’unico segnale serio da prendere in considerazione.

La prima differenza che è stata già evidenziata tra Corea del Sud ed altri paesi sta nell’attivazione precoce di un protocollo di tracciamento, test e isolamento delle persone venute in contatto con soggetti infetti, basato su uso di teconlogie digitali, un numero estensivo di tamponi e la collaborazione della popolazione che si è sottoposta a screening volontario, una volta che ciascuno apprendeva di essere stato in possibile contatto con un soggetto infetto grazie alle app che segnalavano i luoghi frequentati nei giorni precedenti dai soggetti trovati infetti.

Aumentare semplicemente il numero di tamponi, senza avere strumenti di tracciamento rapido dei contatti che allertino i cittadini sul loro possibile contagio e li inviti a sottoporsi al test, non basta. Per capirlo, guardiamo alle figure seguenti. In rosso sono rappresentati soggetti positivi e sintomatici, in giallo soggetti positivi ma non ancora sintomatici o paucisintomatici, in grigio soggetti liberi dal virus. Una croce blu rappresenta l’esecuzione di un test per la rilevazione del virus.
Nel primo caso, illustrato dalla figura qui sotto, applichiamo un gran numero di test sulla popolazione, utilizzando una distribuzione casuale per avere un campione statistico. Dalla percentuale di positivi al test otteniamo al più una rappresentazione statisticamente corretta della frequenza del virus nella popolazione, ma non identifichiamo tutti i soggetti infetti.

Nel secondo caso, illustrato nella figura seguente, lo stesso numero di test è diretto alle persone che sono state identificate per aver avuto contatti (anche casuali) con il primo soggetto infetto: la frazione dei positivi nella popolazione seaminata sarà più alta e non rappresenterà la diffusione del virus nella popolazione, ma avremo identificato (tracciato) tutti i soggetti positivi (idealmente, se le cose sono fatte facendo tantissimi tamponi e avendo la collaborazione della popolazione).

Dunque possiamo vedere come, seguendo IN TOTO la strategia della Corea del Sud (cioè usando anche strumenti invasivi della privacy personale), si riesca a tracciare per tempo i focolai epidemici; sempre che, naturalmente, nella zona campionata ci si trovi nella fase iniziale di un’epidemia (quando cioè si possa appunto parlare di focolai epidemici e non di epidemia diffusa).

Fin qui abbiamo parlato di tracciamento dei focolai epidemici; bisogna, però, discutere anche di contenimento.

In maniera naive, potremmo pensare che il problema sia di facile soluzione, attuando una politica di isolamento dei contagiati. Il problema, però, è che molti di questi richiedono anche di essere ospedalizzati: dunque isolamento sì, ma in ospedale – in un luogo, cioè, ove si concentrano altri pazienti e personale medico impegnato a fronteggiare l’epidemia.

A questo punto il confronto fra Italia e Corea del Sud diventa particolarmente istruttivo.

Facciamo un passo indietro: nel 2015, la Corea dovette affrontare uno scoppio epidemico di un altro coronavirus, quello che causa la MERS, a partire da un paziente proveniente dall’Arabia Saudita che era stato ospedalizzato. L’andamento di quell’epidemia è rappresentato qui sotto: si nota come ci fu una letalità di circa il 20% e la quarantena di migliaia di persone.

Ora, bisogna sapere che sebbene la letalità del coronavirus MERS sia alta, il suo R0 è generalmente inferiore a 1; il che provoca in genere l’immediato esaurimento spontaneo dei focolai infettivi.

Tuttavia, in ambito ospedaliero i contatti prossimi tra un paziente infetto ed il personale sanitario sono molteplici e ravvicinati nel tempo: questo spinge in alto R0, il numero di persone mediamente contagiate da ogni soggetto infetto, e diminuisce il tempo medio che ci vuole per ogni nuova infezione secondaria a partire da un soggetto infetto (perchè ci sono pià contatti per unità di tempo).

Per questo motivo, nel 2015 R0 per il coronavirus MERS è schizzato da meno di 1 a 5 (in alcuni ospedali), come poi è stato misurato a posteriori.

Cosa sappiamo riguardo SARS-CoV-2? Come atteso, le infezioni ospedaliere sono già state descritte a Wuhan, e la possibilità di eventi superinfettivi (quelli che alterano R0 ed il tempo medio che ci mette un infetto a contagiare altri)è stata già enunciata.

In Italia, i peggiori focolai – quelli del Lodigiano e del Bergamasco – hanno certamente risentito del burst ospedaliero, perchè il personale sanitario è risultato immediatamente infetto e ha propagato rapidamente l’infezione.

In particolare, l’assessore alla sanità della Lombardia ha ricordato come vi sia stato un notevole contagio del personale sanitario (per una frazione attuale di circa 12% dei medici contagiati o potenzialmente contagiati), che, come abbiamo visto, soprattutto all’inizio, in condizioni di scarsa consapevolezza, contribuisce agli eventi di rapida propagazione ed accensione di forti focolai, difficilmente contenibili per la velocità con cui si espandono.

Naturalmente, quando l’epidemia si diffonde su di un territorio, i valori di R0 dei singoli ospedali risultano “diluiti” su quelli della popolazione nel suo complesso, per cui il numero di contagiati giornalieri è dominato da infezioni extraospedaliere e Rt (il numero medio di contatti contagiati da un soggetto infetto) torna a valori simili a quelli attesi per R0. Tuttavia, gli ospedali rimangono un “motore” attivo di infezione, soprattutto se si considera che l’alto Rt ospedaliero significa che in quelle comunità è necessario raggiungere una frazione di immuni molto più alta per avere immunità di gregge protettiva, e questo prevedibilmente comporterà che il personale medico non sarà protetto nemmeno quando la popolazione nel suo complesso avrà raggiunto una sufficiente immunità.

Il problema non è solo lombardo: si hanno esempi di cluster epidemici ospedalieri, in qualche caso dovuti anche forse alla trascuratezza di singoli medici, in ogni regione, e preoccupano soprattutto quelli riscontrati in alcuni ospedali del sud Italia, che, ove non bloccati immediatamente, potrebbero rapidamente replicare il quadro che si osserva al nord, soprattutto considerando quanto sta accadendo ad esempio in Campania, ove le misure di prevenzione sembrano totalmente assenti o molto scarse in quei reparti ed in quei pronto soccorsi che non siano dedicati proprio alle malattie infettive.

Le infezioni ospedaliere, quindi, contribuiscono a generare il “fuoco d’artificio” rapidissimo ed improvviso che accende poi l’incendio di vaste proporzioni; è per questo che, tornando ai coreani, sulla scorta dell’esperienza con il coronovirus MERS, essi avevano predisposto una serie di misure che garantissero che la terza fase dopo il tracciamento ed il testing – vale a dire l’isolamento – si svolgesse nella massima sicurezza per il personale sanitario.

Percorsi differenziati, sospensione delle attività routinarie non indispensabili, presidi di sicurezza per tutti i medici ed il personale – non solo quello dedicato agli ospedali con casi già accertati di COVID-19; cosa altro si può fare per far diminuire la propagazione ospedaliera del virus?

Alcune altre misure, derivate dall’analisi della letteratura disponibile anche su altre epidemie (come Ebola), prevedono:

  • il test continuo nel tempo di tutto il personale sanitario;
  • l’utilizzo di test serologici, per identificare medici immuni da utilizzare nelle zone a maggior rischio;
  • il tracciamento dei movimenti del personale medico, per evitare che la stanchezza faccia commettere errori;
  • l’utilizzo di personale ausiliario meno esperto per il controllo degli accessi e delle procedure di sicurezza e per la vestizione e la svestizione dei medici;
  • la preparazione di strutture dedicate per il personale medico, che non deve essere costretto ad organizzare una “separazione in casa propria” dal resto della famiglia e non deve essere costretto a spostarsi su lunghe distanze per raggiungere il luogo di lavoro;
  • il controllo elettronico differenziato degli ingressi del personale nei vari reparti;
  • la separazione fisica delle strutture dedicate a fronteggiare COVID-19 (fino alla costruzione di strutture dedicate e centralizzate per i pazienti COVID);

Non è detto che tutte queste misure siano praticabili nella realtà italiana; tuttavia, di sicuro queste misure sono certamente più efficaci dell’aumento (pur necessario) del personale medico dedicato, che in sè, ove non sia messo in condizioni di sicurezza, potrebbe rappresentare un mezzo di diffusione maggiore dell’epidemia a causa dell’esposizione professionale.

E’ particolarmente grave che si aspetti lo scoppiare dell’emergenza per attuare queste misure, in quelle regioni soprattutto del Sud (non tutte, se per esempio si guarda alla Puglia, che ha giò preso in considerazione questo fenomeno e sta attuando opportune contromisure) ove al momento molte, troppe procedure di routine clinica sono rimaste invariate, senza tener conto del fatto che il contagio è già arrivato a colpire duramente anche il personale sanitario.

Il nostro personale sanitario – i nostri soldati, in questa guerra – deve essere salvaguardato, per evitare che si trasformi involontariamente in un mezzo di propagazione del virus nelle fase iniziali e di mantenimento di un “motore epidemico” nelle fasi più avanzate.

Se si vuole, guardiamo pure alla Corea, ma guardiamoci davvero: “mezza Corea” non funzionerà, dobbiamo attuare in toto le misure necessarie.

Enrico Bucci

Data lover, Science passionate, Fraud buster (when lucky...)

12 pensieri su “Un’emergenza non strana 1/2

  1. Riguardo la Corea del Sud, è chiaro che hanno imparato la lezione MERS e capito cosa fare immediatamente per stroncare la diffusione del COVID-19. Quello che mi preoccupa dell’Italia è che sembra nessuno si renda conto degli errori commessi, per assurdo nemmeno chi avrebbe interesse (le opposizioni politiche) a sottolinearli, e quindi della necessità di correre immediatamente ai ripari ed attuare, per quanto ancora possibile, il “modello coreano”. Ho parenti ed amici medici che, confermo, lavorano carenti, quando non addirittura sprovvisti, dei DPI. Tutto questo è assente dal dibattito pubblico, si parla di runner e mascherine in maniera generica. Così non ne usciremo mai, altro che Corea.

  2. Caro Enrico. Spero che le tue riflessioni concrete sulle pratiche operative ospedaliere vengano ascoltate e presto. Troppe chiacchiere vuote sento nelle interviste. Purtroppo si continua sì a prendere provvedimenti logici, ma sempre a guaio fatto, non quando il ragionamento te li indica. Il virus è veloce e tra una previsione giusta e il guaio conseguente passano si e no 5 o 10 giorni. Una aggiunta. La strategia coreana è stata efficace perchè precoce, ma ha mostrato che esistono molti giovani infettivi e asintomatici o quasi. Se stiamo a casa siamo isolati o meglio distanziati, ma qualcuno deve lavorare. È su questa categoria che potremmo praticare il sistema quasi coreano. Il virus ora circola tra chi lavora e lo porta a casa. Possibile non capirlo? Certo parliamo di mitigazione, ma purtroppo il caos negli ospedali che volevamo evitare c’è ed è drammatico. E produce modalità di gestione dei casi che a mio avviso contribuiscono in parte ad innalzare la mortalità reale oltre che quella apparente.. Insomma il distanziamento di chi può stare a casa non basta se esistono vettori e congiunzioni che trasportano il virus dal lavoro a casa. Occorre applicare a chi lavora regole simili a quelle che descrivi per i sanitari.

  3. Qualunque ipotesi anche se eccezionale poco considerata o poco frequente non può essere esclusa a priori, se rimane tale, poi deve essere dimostrato dai fatti, altrimenti la ricerca non andrebbe avanti, poiché non è detto che le conoscenze pregresse, in questo caso degli altri coronavirus, siano sufficienti a comprendere il nuovo coronavirus, ciò non toglie che sono una base di partenza nel formulare nuove ipotesi. Per costruire un modello che abbia una certa solidità oltre ai campioni epidemiologici rilevati significativi statisticamente, il virus andrebbe studiato in laboratorio per conoscere meglio le sue caratteristiche, questo è un fattore pernicioso del problema!
    I dati dei tamponi rilevati con differenti modalità non possono essere usati per confronti tra Nazioni, paesi e regioni diverse! Capire il perché di questa scelta è molto più complesso e prescinde dalle conoscenze scientifiche, vuoi per motivi economici, strategici, politici. Gli stessi dati rilevati sui contagiati, infetti, deceduti, eccetera, non possono essere rapportati all’intera popolazione italiana ma al massimo a ciascuna regione o focolaio, ogni focolaio può avere un andamento diverso!
    Che il modello coreano abbia funzionato abbastanza bene e un’ipotesi abbastanza verosimile, visto che si basa sui metodi scientifici da manuale che qualsiasi epidemiologo, virologo o biologo conosce e saprebbe applicare, che sappiamo funzionare, cioè il controllo puntuale degli infetti e della trasmissione del virus cioè del contenimento, fatte però le dovute attenzioni a confrontarlo con il modello italiano perché le condizioni non sono proprio le stesse. Quello che mi chiedo è, sarebbe o chi gestisce l’emergenza vorrebbe applicarlo all’Italia in tutto e per tutto?
    Le misure da applicare negli ospedali descritte sono quelle giuste e da manuale! Credo che quello che c’è di diverso della nostra situazione o condizione rispetto a quella della Corea sono proprio le nostre strutture organizzative, sociali, politiche economiche, per questo il modello coreano in Italia non viene usato o farebbe fatica ad essere efficace!
    Grazie

  4. Leggere che “misure di prevenzione sembrano totalmente assenti o molto scarse” oppure che forse si stia pensando di ricondizionare le mascherine monouso o che si
    stiano riadattando ventilatori per gestire più pazienti contemporaneamente rende merito della necessità di organizzare sistematicamente informazioni finalizzate ad approntare futuri piani di emergenza e stringenti requisiti normativi di livello nazionale.

    La curiosità dei giornalisti non sempre è esaustiva e non è certo immune da bias, ma i fatti sono creature ostinate (e lo dimostra anche l’availability bias): Quello che risulta dal campione ad hoc sarà anche sufficiente per paventare il rischio di focolai in strutture sanitarie ma non tanto da esaurire la necessità di ulteriori chiarimenti.

    Onde consentire ad una certa percentuale di assistiti la facoltà di contribuire al “monitoraggio”, mi chiedo se possa essere utile descrivere dettagliatamente le misure di prevenzione addizionali (rispetto a quelle suggerite alla popolazione) che le strutture e gli operatori sanitari sono tenuti ad osservare oppure se ci si debba limitare a metodi passivi come le app di tracciamento (le cui specifiche ed cui limiti operativi non sono stati chiariti ma è certo che non facciano affidamento sulle capacità della popolazione).

    Da una lettura dei giornali sembra sia possibile desumere che tra le “misure di prevenzione” sarebbero dovute essere incluse anche il reperimento dei fondi, il reperimento degli operatori sanitari ed il reperimento “autarchico” di kit diagnostici, mascherine, ventilatori e farmaci per la terapia intensiva, strutture “campestri” di pre-triage e di ricovero a fronte del rischio di sequestri di tali beni “strategici” approntati in modo “non cooperativo” da altri paesi europei.

    PS: il boom di 250 medici infetti riportato da il mattino si riferisce presumibilmente a tutta Italia, se non erro. Non sono ancora riuscito a reperire una fonte ministeriale con ripartizione regionale. Sarebbe stata certo interessate una disamina di una relazione ufficiale del Ministero competente, pur anche descrittiva (ma di carattere non episodico) o addirittura con inferenze validate (prive di “forse” o “sembra”) ma idonea ad esporre sistematicamente le criticità dell’intero sistema sanitario durante la crisi.

  5. Caro Enrico, ottimo documento, e condivido quanto dici riguardo l’aspetto sistemico e di governance delle misure di prevenzione. Comunque, anche se non rientrava nell’obiettivo del tuo lavoro, vorrei sottolineare l’importanza di un approccio olistico nel capire e combattere il COVID-19.

    Certamente i fattori sociali, economici e di governance sanitaria sono importanti, cosi come sono importanti gli aspetti biologici – virologici – biomedici, ma altrettanto importante è la dimensione “ambientale” del problema, ad oggi poco conosciuta, in particolare il rapporto virus-inquinamento atmosferico (particelle sottili), e – ancor più complesso – il rapporto virus-ecosistema. Attenzione, la conoscenza delle inter-relazioni tra diversi fattori o variabili potrebbe dare un contributo non solo ad una maggior comprensione dell’aspetto “diffusione dell’epidemia” ma – forse – anche per dare un contributo alla conoscenza della genesi.

    Ad esempio, Pianura Padana e Wuhan presentano le stesse caratteristiche, sono entrambe zone altamente industriali con alta concentrazione e ben distribuita di polveri sottili. Queste ultime, in condizioni atmosferiche particolari (lunghi periodi siccitosi, come accade in Nord Italia da Novembre ad oggi) possono diventare vettori importanti del COVID-19, capaci di veicolare alte concentrazioni del virus stesso. A maggior ragione se, come ho letto oggi, il virus può rimanere attivo anche tre ore in ambiente chiuso (si ricordi che le polveri sottili le ritroviamo anche in ambienti chiusi). Ma qualcuno ha dati di polveri sottili con le informazioni rilevanti ?

    Insomma, vogliamo intraprendere un approccio scientifico interdisciplinare o no ? Credo che in questo momento, più che mai, sia veramente necessario mettere insieme le diverse competenze e conoscenze di settore.

  6. Gentile Enrico,
    grazie dei suoi contributi che leggo sempre con molta attenzione.
    Volevo chiederle un parere su una evidenza che ho riscontrato nel monitoraggio che svolgo relativo ai casi in Toscana, dove, a fronte di una relativa contenuta quantità di contagi, la percentuale dei ricoverati interapia intensiva è attualmente oltre il doppio di quella lombarda. E anche sul diverso progredire dei contagi in Emilia, che disegnano una curva diversa rispetto alle regioni sopra citate:

    https://www.periodicodaily.com/coronavirus-in-toscana-aggiornamenti/

    In questa delicata fase che sovrappone l’emergenza sanitaria a quella sociale, è necessario diffondere informazioni corrette: per questo motivo avrei piacere di un suo riscontro.

    cordiali saluti
    Massimiliano De Luca

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